La trasmissione
radiofonica statunitense “A prairie home companion”, rassegna di musica
country di enorme successo e longevità (fu fondata 30 anni fa da quel
Garrison Keillor che ne è sempre stato il mattatore, e che ha commissionato
a Altman questa pellicola) è agli sgoccioli. È costretta a vendersi a
speculatori che vogliono chiuderla. Fin qui, siamo in zona Nashville. Ma non
cè solo il solito affettuoso bestiario della provincia a stelle e strisce
altmaniana. Una strana donna in impermeabile bianco si aggira quatta quatta
nel teatro Fitzgerald (sì, Francis Scott: riferimento tutt'altro che
casuale, vedrete), seguita da un investigatore privato buffo e
anacronistico, che sembra uscito da un film noir anni 40, e infatti si
chiama Guy Noir.
Ma la vera storia la racconta la Donna Misteriosa, riportando una
barzelletta detta anni prima da Garrison Keillor. Un pinguino dice a un
altro pinguino: sembra che tu abbia indosso un frac. E lui: e chi ti dice
che non ce l'abbia davvero? È questo, precisamente, il punto focale di tutto
Altman: la problematica (ma possibile) distinguibilità tra la realtà e quel
suo “vestito” che è l'immagine, la sua pura apparenza.
Ma perchè proprio questa battuta idiota? Perché a questa battuta la Donna
Misteriosa, che è l'Angelo della Morte nientemeno (ma sì, sveliamo il
mistero, che tanto Radio America
va a parare altrove), non ride, mentre gli uomini sì, dice Garrison Keiller.
La morte, esattamente come il cinema, non distingue la realtà dalla sua
immagine e rende le persone “vere” qui e ora delle figurine bidimensionali,
delle ombre tragicamente provvisorie. La morte e il cinema attestano di
continuo che tutto è impermanente. Il problema posto da
Radio America è: come fanno
persone vere a esistere nonostante la morte (e il cinema) le dipinga come
una mera illusione? Come fanno persone vere a non essere travalicate dal
Capitale (parente stretto sia della morte che del cinema), che le considera
come pedine esili e senza spessore, esattamente come lo speculatore nel
film, l'unico a guardare lo show non nella sala del teatro, ma da un palco
coperto da un vetro, con la regia di Altman fa di tutto per alludere che la
scena in corso sia non tanto “in scena” quanto un riflesso su quel vetro
guardato dallo speculatore. Speculatore il cui viso viene a sua volta
riflesso sul vetro: addirittura, estremizzando di lì a poco questo
principio, il processo annichilente dell'immagine, gemello di quello della
morte e del capitale, gli si rivolge contro, e l'Angelo della Morte lo
condanna a un incidente fatale “liberando” i corpi di chi lavorava e lavora
al programma radio dalla morsa dell'immagine e del capitale.
La morte, che raddoppia gli uomini in se stessi e nella propria immagine
facendoli combaciare, può venir contrastata quando viene raddoppiata
anch'essa (la morte dello speculatore è la copia dell'incidente in cui perse
la vita l'angelo). E infatti il finale mostra l'angelo che guarda con il suo
bellissimo viso soavemente minaccioso prima i protagonisti riflessi sul
vetro, e poi i protagonisti in carne ed ossa. L'indistinguibilità tra cosa e
immagine che è la morte (e il cinema) dovendosi raddoppiare innanzitutto lei
stessa (è la grande lezione del dimenticato
Images sempre di Altman del
1972) paradossalmente rivela la propria necessità intrinseca di distinguere
tra le due cose. La macchina da presa di Altman, che con i suoi movimenti
intorno e innanzi-indietro rispetto ai corpi e alle cose attribuisce loro
uno spessore volumetrico che li dichiara “cose”, con una propria concreta
presenza sul set, nel momento logicamente opposto in cui ne fa “immagini” e
assenza dal set. È precisamente lo sdoppiamento di cui si sta parlando, e da
decenni Altman lo mette in pratica inquadratura dopo inquadratura.
Non a caso, frequentemente troviamo movimenti di macchina che uniscono e
fondono i momenti di “dietro le quinte” a quelli “in onda” dei vari numeri
musicali. Campo e fuoricampo (diciamo pure vita e morte) si danno
pacificamente la mano, si ritrovano stretti nello stesso abbraccio. La prima
inquadratura è un ripetitore radiofonico sovrapposto ai suoni che trasmette:
l'immagine (sonora, in questo caso) è mescolata al suo supporto (la “cosa”
dietro all'immagine, che la produce) – principio che è poi evidentemente lo
stesso in atto in tutto il film, dove coesistono le persone e la loro
“immagine sonora” che si sente per radio (“In radio non si invecchia né si
muore”, dice Keillor). Ugualmente, l'angelo abita lo stesso spazio degli
uomini, e viene visto proprio insieme a loro.
Campo e fuoricampo vanno a braccetto, e proprio in virtù di quest'intesa è
possibile (sdoppiando l'agente sdoppiante che è l'immagine, la morte, il
capitale) ritagliarsi un campo che scosti e sorvoli il fuoricampo assoluto
della morte (e dell'immagine). Tutto il contrario del pensiero “noir”,
incarnato appunto da Guy Noir, che si crogiola nella tragicità sottesa alla
scissione irriducibile tra campo e fuoricampo. Per questo questa figurina
del noir apre il film con tutta la tragicità e la voce off di un personaggio
noir, per poi diventare un personaggio sempre più comico e dunque anti-noir.
Prova del nove: l'Angelo che la voce off di Guy evoca illudendoci che se lo
sia sognato, che sia un'apparizione del fuoricampo aliena dal campo,
ritraendola in uno stilizzato e irreale vicolo illuminato di blu, senza
stacchi di montaggio entra nel teatro Fitzgerald, dice addio al fuoricampo
incarnando la continuità con il campo.
Voto: 23/30
06:06:2006 |