Parlare col corpo/ Exhibiting the Body
Jonathan Demme appartiene alla generazione di chi
è nato nel secondo dopoguerra.
Generazione, quella postbellica, la cui mitopoiesi
individuale coincideva con quella di massa, capace di costruirsi attraverso
una transizione dal sogno adolescenziale – comune ai teenagers di ogni epoca
– ai film, i fumetti, la pubblicità e la tv in genere, che esordivano
allora.
Il “meraviglioso” scoperto nei cinema di provincia (pellicole in 3-D,
caleidoscopio di colori e suoni) marciava insieme all’angoscia per una
possibile Guerra Nucleare -o per tutte le altre guerre in atto - e questa
convivenza di magia primordiale e precoce consapevolezza filtrate attraverso
l’occhio della mente, segnarono l’opera di molti autori.
Questo film, tutti i suoi film o l’intera filosofia
demmiana, rispondono all’interrogativo: who is Charlie?
Chi si nasconde dietro l’Uomo Comune (il drogato, la sposa, l’agronomist,
l’uomo Jimmy Carter)?
Chi è il Charlie che è dentro costoro e dentro tutti noi?
(Charlie è il nome del protagonista di SOMETHING WILD e
anche quello che torna nel titolo del remake di SCIARADA: THE TRUTH ABOUT
C., appunto).
Demme utilizza il proprio occhio-spia - lo stesso delle soggettive
finali di SILENCE OF THE LAMBS - entelechico e quasi posseduto da una
congenita predisposizione alla fluttuazione/interscambio tra soggetto
osservante e oggetto ripreso, sia per scandagliare dinamiche interiori e
derive esistenziali, sia per puntare dritto al cuore di una nazione.
Perfettamente coerente rispetto alla fagocitante multimedialità cormaniana,
Demme non crea vari film, ma monta (il valore dell’editing, come in Dante)
un corpus unico iniziato ai tempi della New World, dove non c’è
distinzione tra dentro e fuori, privato e pubblico, piccolo e grande.
Qui è massimamente l’innocenza primaria del
corpo-sofferente-privato di Anne Hathaway a darsi come truth-lingo,
linguaggio di verità, nudo di fronte alla sfrontata seduta analitica
silenziosa filtrata dalla m.d.p. è
il corpo di Anne - junkie alla deriva per aver causato la morte del fratello
in un incidente d’auto - che stabilisce un agone tra segni linguistici e
resto dei segni non-linguistici.
La battaglia/seduta avviene a colpi di scambi senza pietà tra l’ ipertrofia
verbale della protagonista e l'“indecenza” silenziosa della macchina da
presa, decisa e pungente quanto un ago di siringa arrivato fino alla carne e
all’ osso del dolore.
Ascolto della parola che, da solo, non porta a nulla, è il solito paravento
di chi non vuol mettere in discussione il proprio corpo.
La top model posseduta dal mostro invisibile (e “grasso”) del dolore, così
diverso dalla muta magrezza esteriore, mette in atto una comunicazione
non-verbale -Demme lavora coi corpi, nei suoni, attraverso le immagini -
stabilendo un più alto livello di percezione, analisi, risoluzione e
catarsi.
è
la “parola silenziosa” a condurci verso la comprensione
dell’essere e della verità.
Come accadeva nelle simmetriche gabbie in cui allenava la parola Hannibal
Lecter (uno che mangia il corpo degli altri per capirlo meglio), o nella
contrapposizione statico/cinetico tra gli ambienti del potere in
MANCHURIAN CANDIDATE e la dimora dadaista dell’ex-capitano dell’esercito
americano; ma anche nei collage musicali di SOMETHING WILD e TRUTH ABOUT
CHARLIE; o nel corpo scuro errante di Thandie Newton che sfugge col semplice
movimento alle reti di parole tessutele attorno dal ragno-Wahlberg. Ci si
sottrae all’utopia del controllo sulla mente solo ridando ascolto ai corpi,
ai suoni, alle immagini in movimento.
Questo approccio alla cosa-cinema, che per Demme e altri visionari
cormaniani e post-cormaniani è anche stile di vita, deriva dal periodo
passato alla New World, nei primissimi anni Settanta, quando l’ineffabile
regista-produttore addestrava il suo manipolo di studenti sovversivi ad una
contro-guerra dei segni, che loro stanno ancora combattendo.
Corman insegnava uno stile di regia che sembrava un appostamento dietro le
linee nemiche e in RACHEL la m.d.p. lavora come un’arma, una pistola che
muove verso Hathaway o la sorella, letteralmente divorata dal furore della
protagonista.
La predisposizione di questo apparato di tecniche d’assalto visivo non è
gratuita: il regista deve scovare, con il movimento, la verità dentro le
cose, operazione relativamente semplice (“cose” che si aprono all’uomo se
questi si apre ad esse: Malick, per esempio) e la verità dell’uomo - molto
più difficile da trovare - tenuta nascosta nelle menti dei familiari (dei
cari creduti conosciuti) grazie ai mascheramenti della parola, del logos.
Alla fine, come sempre, si apre la festa: i suoni caraibici, le etnie
dialoganti, gli stili musicali sovrapposti e, naturellement, Mr
Corman in persona, tra i danzanti, a tenere le fila di un cinema unico,
irripetibile, necessario.
03:09:2008 |