Primavera, Estate, Autunno, Inverno... e ancora Primavera

di Ki-duk Kim

Con: Ki-duk Kim, Seo Jae-Kyung

di Marco GROSOLI

Il ciclo delle stagioni che si sovrappone al ciclo delle diverse età della vità umana. Ogni età è impersonata da un monaco protagonista via via di uno dei quattro diversi episodi di cui il film è composto, tutti ambientati nel minuscolo monastero di un monaco anziano, galleggiante su un lago tra i monti. Un innocuo quadretto bucolico? Un contentino turistico per occidentali in vena di new age?
Se dietro alla macchina da presa c’è il grande e sempre più prolifico Kim Ki-Duk, certo che no. Regista magari poco equilibrato ma di sicurissimo polso, firma un’opera funambolicamente sospesa tra la contemplazione e l’irruenza istintiva, sanguigna. Non tutto fila liscio, anzi, in ogni episodio c’è una dolorosa perdita di innocenza (un bambino che uccide per sbaglio un animale e non riesce a superarne il trauma, un giovane monaco che abbandona i “voti” per l’amore sessuale che lo lega a una ragazza…). Il placido susseguirsi di età e stagioni viene continuamente percorso da scosse, fratture, ferite che, anche se ogni volta rimarginate nell’immutabile torpore del paesaggio circostante, colorano impercittibilmente questa pace di tenui ombreggiature. Questa l’ottima intuizione del film, riuscire a impostare una coesistenza pura tra l’afflato (un po’ facile) mistico-panteista (i frequenti totali dello splendido angolo montano che ospita le vicende) e i fuggevoli dolori mondani che lo squarciano sempre fulmineamente. Kim utilizza modi filmici spicci, una stringatezza che non è asetticità, al contrario è un susseguirsi di “schiaffi” che lambiscono la placida superficie circolare del film. La disarticolazione della sua sintassi è semplice, elementare: fa susseguire “micce” di intensità emotiva allo stato brado cui il montaggio, pur legandole insieme, concede un ragguardevole margine di funzionamento espressivo autonomo. Una doccia scozzese che alterna rapidamente istanti contemplativi e momenti bollenti, che fa bruciare nell’attimo stesso in cui si fanno visibili. Lo stesso suicidio dell’anziano monaco protagonista, narrativamente il climax dell’intero film (e il momento più toccante e visivamente azzeccato) viene archiviato in poche inquadrature, “brutali” e indimenticabili.
Sia all’interno del monastero che sulla riva del lago su cui poggia, c’è una porta senza muri che spesso i personaggi aprono e attraversano senza che, evidentemente, ce ne sia la necessità fisica, ottemperando a precetti buddisti precisi. La regia sottolinea spesso questa azione “gratuita”, che ricorda molto da vicino gli squarci subito rimarginati al tessuto del film di cui si è detto. Il film coglie la consapevolezza buddista dell’impermanenza della vita e delle cose mondane, traducendola acutamente nell’insistenza sulla gratuità del gesto. Scrivere con l’acqua continuamente la stessa frase sulla pietra ogni volta che si asciuga e svanisce, incidere sul pavimento ideogrammi già tracciati, scalare una montagna con un peso addosso (è il regista stesso che si improvvisa attore e si incarica di questa ascesa herzoghiana): in tutto questo Kim non mette nessun intento illustrativo, didascalico o banalmente descrittivo, li rende invece esempi efficaci del proprio inerme discorso sulla fragilità di ogni vita, di ogni azione istintiva, di ogni lampo passionale. Un discorso che affida la propria efficacia a una visionarietà sempre soltanto accennata, tirata via e frammentaria, incoerente forse (molte parti del film non si legano – vedi l’ascesa finale al monte o il crudele assideramento della madre del secondo monaco bambino alla fine), ma proprio per questo sorprendentemente vitale.
 

Voto: 28/30

15.06.2004

 


::: altre recensioni :::