
Il ciclo delle stagioni che si
sovrappone al ciclo delle diverse età della vità umana. Ogni età è
impersonata da un monaco protagonista via via di uno dei quattro
diversi episodi di cui il film è composto, tutti ambientati nel
minuscolo monastero di un monaco anziano, galleggiante su un lago tra
i monti. Un innocuo quadretto bucolico? Un contentino turistico per
occidentali in vena di new age?
Se dietro alla macchina da presa c’è il grande e sempre più prolifico
Kim Ki-Duk, certo che no. Regista magari poco equilibrato ma di
sicurissimo polso, firma un’opera funambolicamente sospesa tra la
contemplazione e l’irruenza istintiva, sanguigna. Non tutto fila
liscio, anzi, in ogni episodio c’è una dolorosa perdita di innocenza
(un bambino che uccide per sbaglio un animale e non riesce a superarne
il trauma, un giovane monaco che abbandona i “voti” per l’amore
sessuale che lo lega a una ragazza…). Il placido susseguirsi di età e
stagioni viene continuamente percorso da scosse, fratture, ferite che,
anche se ogni volta rimarginate nell’immutabile torpore del paesaggio
circostante, colorano impercittibilmente questa pace di tenui
ombreggiature. Questa l’ottima intuizione del film, riuscire a
impostare una coesistenza pura tra l’afflato (un po’ facile)
mistico-panteista (i frequenti totali dello splendido angolo montano
che ospita le vicende) e i fuggevoli dolori mondani che lo squarciano
sempre fulmineamente. Kim utilizza modi filmici spicci, una
stringatezza che non è asetticità, al contrario è un susseguirsi di
“schiaffi” che lambiscono la placida superficie circolare del film. La
disarticolazione della sua sintassi è semplice, elementare: fa
susseguire “micce” di intensità emotiva allo stato brado cui il
montaggio, pur legandole insieme, concede un ragguardevole margine di
funzionamento espressivo autonomo. Una doccia scozzese che alterna
rapidamente istanti contemplativi e momenti bollenti, che fa bruciare
nell’attimo stesso in cui si fanno visibili. Lo stesso suicidio
dell’anziano monaco protagonista, narrativamente il climax dell’intero
film (e il momento più toccante e visivamente azzeccato) viene
archiviato in poche inquadrature, “brutali” e indimenticabili.
Sia all’interno del monastero che sulla riva del lago su cui poggia,
c’è una porta senza muri che spesso i personaggi aprono e attraversano
senza che, evidentemente, ce ne sia la necessità fisica, ottemperando
a precetti buddisti precisi. La regia sottolinea spesso questa azione
“gratuita”, che ricorda molto da vicino gli squarci subito rimarginati
al tessuto del film di cui si è detto. Il film coglie la
consapevolezza buddista dell’impermanenza della vita e delle cose
mondane, traducendola acutamente nell’insistenza sulla gratuità del
gesto. Scrivere con l’acqua continuamente la stessa frase sulla pietra
ogni volta che si asciuga e svanisce, incidere sul pavimento
ideogrammi già tracciati, scalare una montagna con un peso addosso (è
il regista stesso che si improvvisa attore e si incarica di questa
ascesa herzoghiana): in tutto questo Kim non mette nessun intento
illustrativo, didascalico o banalmente descrittivo, li rende invece
esempi efficaci del proprio inerme discorso sulla fragilità di ogni
vita, di ogni azione istintiva, di ogni lampo passionale. Un discorso
che affida la propria efficacia a una visionarietà sempre soltanto
accennata, tirata via e frammentaria, incoerente forse (molte parti
del film non si legano – vedi l’ascesa finale al monte o il crudele
assideramento della madre del secondo monaco bambino alla fine), ma
proprio per questo sorprendentemente vitale.
Voto: 28/30
15.06.2004
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