
Dopo aver conquistato la fiducia dei coniugi Byrnes, genitori della
imminente consorte, Gaylord Focker (Fotter, nella traduzione italiana,
n.d.r.) deve ora presentare loro la sua famiglia di origine:
quanto i Byrnes sono ‘cold war’-oriented nei rapporti esistenziali,
tanto i Focker sono sanguigni e ruspanti. Chi la spunterà?
Al secondo capitolo della saga ora triplicemente familiare, gli
sceneggiatori Jim Herzfeld e John Hamburg proseguono il cammino
intrapreso fra doppi sensi, equivoci e gag ora demenziali ora sottili.
Il gusto pirotecnico della scrittura sa mantenersi, anche grazie al
brioso parco attori, su standard decisamente elevati: le
caratterizzazioni dei personaggi non sono affatto grossolane, mentre il
ritmo non subisce una flessione.
Puro entertainment hollywoodiano garantito da una tradizione secolare,
verrebbe dunque da dire: Roach non ha certo la sana follia screwball
e segue con una certa ripetitività robotica gli sviluppi narrativi,
è vero, ma negare che il professionismo industriale dell’operazione (a
un aumento di personaggi non corrisponde un reale aumento emozionale
rispetto al prototipo, per esempio) non giunga a esiti fluidi e
sfavillanti – il che non accade così spesso con il moralismo affogante
di tante neocommedie americane – sarebbe come sindacare sulla malafede
dell’animale uncinato della celebre favola della rana e dello scorpione.
E’ così e basta.
Forse senza nessuna autentica consapevolezza della coralità della
messinscena, Roach giunge comunque a una negazione della gerarchia
divistica che non lascia indifferenti: nessun volto/corpo prevale sugli
altri e il reciproco scambio interpersonale, pur restando tutto di
superficie, è capace di osmosi interna, liberando umori (auto)ironici e,
talvolta ci pare di intuire, palpiti metacinematografici.
E fa piacere notare un regista giovane che, sapendo di avere mestiere e
non talento, non cerca di forzare la propria grammatica linguistica ma,
anzi, decide di asseverarla in pieno anche nei suoi limiti: così, se il
controcanto musicale – affidato a Randy Newman – è quanto di più
didascalico e marchettaro, la forma visiva sa essere spuria da
indulgenze autoriali e da mortificanti sfoggi tecnici.
Della grande tradizione della commedia da manuale, manca del tutto la
componente malinconica dell’amarezza (su una vicenda di famiglie
allargate, frustrazioni vilipese e geniali ossessioni si veda che anima
è riuscito a infondere Wes Anderson ai suoi Tenenbaum): per fortuna, di
nuovo, Roach non cerca nemmeno di abbozzarne la gestione, preferendo
dilettarsi in capoeire hoffmaniane e in stillerismi stilleriani – il
sale e il pepe q.b. di questa commedia, guarda caso (per tacere del
cameo finale di Owen Wilson, strepitoso semplicemente perché è
strepitoso il suo star lì di star).
Voto: 25/30
04:02:2005 |