
Ricoverata in una clinica svizzera per forti crisi isteriche, Sabina Spielrein
fu la prima paziente, che il giovane dottor Jung curò con i metodi
Freudiani: un esperimento il cui fallimento avrebbe potuto stroncare sin
dall'inizio la carriera di uno dei più grandi psicanalisti della
storia.
Fortunatamente l'esperimento riuscì: a guarirla furono l'ascolto
delle fantasie della malata, il libero sfogo di paure ed emozioni, tramite
il metodo delle associazioni di idee, ed in particolare l'amore che unì
Sabina al suo medico.
Seppur vero è che "ciascun medico per poter guarire i suoi
pazienti, debba comunque amarli", dichiara Jung nel film, il legame
fra i due divenne per lui devastante. Egli comprese che il loro rapporto
era degenerato, che la loro storia avrebbe creato uno scandalo e compromesso
la sua vita privata e professionale. Le chiese di reprimere il suo amore,
di fare il contrario di quanto le aveva permesso di guarire dall'isteria.
Quando la loro storia finì, nella vita di Sabina si susseguirono
la laurea in medicina, un matrimonio, la nascita di una figlia, la decisione
di tornare in Russia, sua terra di origine, e di aprire l'Asilo Bianco.
Erano però gli anni '30, quelli delle dittature e dei fascismi:
comunista quello che fece chiudere l'asilo, nazista quello che la fucilò
a morte nella Sinagoga di Mosca.
Una storia d'amore e di psicanalisi, un intreccio fra convenzioni sociali
da rispettare e passioni latenti da voler esprimere. Un incontro molto
speciale fra un medico ed una paziente, che il regista Faenza fa raccontare
a due personaggi dei giorni nostri, una studentessa ed un professore.
Fra i due, oltre ad un amore per i libri e la cultura, non sembra intercorrere
nulla, se non un sottilissimo affetto intellettuale, destinato a rimanere
platonico. Un'immagine speculare dell'amore, questa, che però svanisce,
si perde, quasi infastidisce, dinnanzi alle forti personalità ed
alle passionali vicende di Sabina e del dott. Jung.
Un'altra storia semi-romantica, che porta alla luce il diario della Spielrein,
dando voce alle sue confessioni. Peccato la fretta con cui sembra raccontata
la vita di Sabina, nel periodo seguente alla sua guarigione, quasi da
non farla vivere di luce propria: quando Jung esce di scena, è
come se il resto della sua vita perdesse valore, anche da un punto di
vista storico e culturale; non le attribuisce a sufficienza l'alto contributo
apportato alla psicanalisi e di cui invece il film vorrebbe essere promotore.
Nella seconda parte di "Prendimi l'anima" infatti, gli eventi
si susseguono con rapidità, quasi superficialità, spezzando
il ritmo, a volte anche sospeso ma intenso, con cui, nella prima parte,
viene raccontato l'anno di vita trascorso nella clinica svizzera.
Ad ogni modo, se rimaniamo nella sfera psicanalitica e ci limitiamo ad
osservare il cinema come arte, qualsiasi film è, in quanto creazione
artistica, frutto delle pulsioni dell'inconscio del suo ideatore. E ponendo
Faenza alla stregua dei pensatori surrealisti, che hanno posto la psicanalisi
alla base del loro Manifesto, non ci rimane che guardare "Prendimi
l'anima" come uno stream of consciousness cinematografico, libero
di infrangere coordinate spazio-temporali, armonie ritmiche e equilibri
emozionali, ed apprezzare la validità artistica con cui un altro
regista italiano è finalmente ritornato sul grande schermo e ci
ha raccontato la vera e controversa storia d'amore fra Jung e Sabina Spielstein.
Link:
www.medusa.it/prendimilanima
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