
Si può raccontare la storia di una liberazione – del corpo e dell’anima
– attraverso le dinamiche di un pranzo, sia pure elaboratissimo e unico
nel suo genere? La risposta, ovviamente, è positiva: sì, si può e tale
Gabriel Axel, regista di sessantanove anni che con Il pranzo di Babette
ottenne il suo primo e unico grande successo di critica e di pubblico
(tanto da vincere l’Oscar per il miglior film straniero), ce lo dimostra.
Non a caso, il film, dopo una prima parte più di maniera e in fondo poco
incisiva in cui vengono anche ripercorse in flashback le vicende
esistenziali e sentimentali delle due sorelle danesi che hanno ospitato
nella loro casa e nella loro comunità la sopraffina chef Babette, acquista
la sua ragione d’essere e la sua anima etica proprio nella seconda parte,
quando Babette, tornata da Parigi con il suo carico di vettovaglie,
prepara e presenta il pranzo alla francese che ha promesso ai suoi
commensali.
Si può dunque dire che il fondamento e la vetta del film risiede proprio
nel cibo, elemento di natura prettamente materica (dunque anche erotica)
che fa da perfetto contraltare all’altra dimensione del film, quella
spirituale e astratta. La natura stessa del pranzo, come disposizione
degli invitati e impianto rigidamente dogmatico, assume subito la valenza
di rito sociale; ma è grazie all’arte di Babette che diventerà anche, e
legittimamente, rito ecumenico, rito estremamente morale e, infine, rito
religioso per eccellenza.
Preparati e presentati con una grazia e una levità a dir poco mozartiane
(e infatti il Don Giovanni risuona spesso), cibo e bevande (rigorosamente
vini e/o spumanti), dunque, rappresentano davvero il sangue e il corpo di
Cristo davanti ai quali, come dice il più libertino degli invitati (non a
caso, un generale francese che ha ben poco da spartire con i vincoli
teologici della comunità in cui si è ritirato, se non l’amore inespresso –
e ricambiato – per una delle due sorelle), i confini fra l’appetito del
corpo e quello dell’anima si fanno indistinti. Lo stesso generale, del
resto, è l’unico che, ora ignaro di avere a che fare di nuovo con la
stessa cuoca, ha già avuto modo di sperimentare proprio a Parigi come
l’arte di Babette (fatta di passione, artigianato e studio) sia in grado
di trasformare “un pranzo in una specie di avventura amorosa” per cui,
appunto, i sensi si liberano e la soddisfazione non soltanto gastronomica
è inevitabile.
Ispirato dunque dal cibo stesso, fonte di vita (e, nella visione bigotta
della comunità luterana, di peccato), il film celebra la ricchezza
assolutamente univoca di qualsiasi arte (Babette spende diecimila franchi
soltanto per la gioia, di nuovo corporea e non, dei suoi commensali),
dunque anche dell’arte culinaria: come Babette ha modo di spiegare nel
finale, “un artista non è mai povero purché dia il meglio di sé”.
L’arte culinaria come antidoto alla repressione dei desideri (ecco
spiegato anche il significato del sottotesto sentimentale) e quindi – e
non paia un paragone azzardato o blasfemo – alla repressione della vera
fede e della vera spiritualità e il mangiare come scoperta di sé e del
proprio inconscio imprigionato dai e nei vincoli della realtà sociale; già
Karen Blixen, celebre autrice del racconto omonimo da cui il film è
tratto, aveva inserito lo scritto all’interno di una raccolta sul tema dei
“capricci del destino”, a indicare, per una volta, il lato ottimista della
casualità della vita e la speranzosa possibilità umana di cambiare
positivamente il corso di qualsiasi evento.
Il regista Axel, tuttavia, non è troppo interessato a questa tematica e
preferisce affidare tutta la suggestione evocativa del suo film alla
dimensione gastronomica (tanto che, come anche Mereghetti fa notare, il
film fa venire davvero l’acquolina in bocca), la quale, fra echi di
Veermer e di Bergman, finisce per influenzare persino la composizione
stessa delle inquadrature e dei dialoghi.
Sorvegliato da un’acuta ironia e da un attento senso dell’immagine, il
film è una sorpresa anche perché, rara volta, presenta il cibo, l’atto del
mangiare (e il suo inevitabile aspetto godereccio) come occasioni di vita
e non, come invece è facilmente riscontrabile in tante opere contemporanee
maggiormente critiche (da Salò a La grande abbuffata, per citarne due), di
contaminazione, di degrado, di mercificazione, di morte.
Impossibile, a questo punto, non citare in maniera dettagliata ciò che
Babette cucina per il meraviglioso pranzo alla francese: brodo di
Tartaruga e vino Amontillado, blinis Demidoff e Veuve Clicquot 1860,
cailles en sarcophage e Clos Vougeot 1864.
Voto: 28/30
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