IL PRANZO DI BABETTE
di Gabriel Axel
con Stéphane Audran, Bodil Kjer, Bibi Andersson



Si può raccontare la storia di una liberazione – del corpo e dell’anima – attraverso le dinamiche di un pranzo, sia pure elaboratissimo e unico nel suo genere? La risposta, ovviamente, è positiva: sì, si può e tale Gabriel Axel, regista di sessantanove anni che con Il pranzo di Babette ottenne il suo primo e unico grande successo di critica e di pubblico (tanto da vincere l’Oscar per il miglior film straniero), ce lo dimostra.
Non a caso, il film, dopo una prima parte più di maniera e in fondo poco incisiva in cui vengono anche ripercorse in flashback le vicende esistenziali e sentimentali delle due sorelle danesi che hanno ospitato nella loro casa e nella loro comunità la sopraffina chef Babette, acquista la sua ragione d’essere e la sua anima etica proprio nella seconda parte, quando Babette, tornata da Parigi con il suo carico di vettovaglie, prepara e presenta il pranzo alla francese che ha promesso ai suoi commensali.
Si può dunque dire che il fondamento e la vetta del film risiede proprio nel cibo, elemento di natura prettamente materica (dunque anche erotica) che fa da perfetto contraltare all’altra dimensione del film, quella spirituale e astratta. La natura stessa del pranzo, come disposizione degli invitati e impianto rigidamente dogmatico, assume subito la valenza di rito sociale; ma è grazie all’arte di Babette che diventerà anche, e legittimamente, rito ecumenico, rito estremamente morale e, infine, rito religioso per eccellenza.
Preparati e presentati con una grazia e una levità a dir poco mozartiane (e infatti il Don Giovanni risuona spesso), cibo e bevande (rigorosamente vini e/o spumanti), dunque, rappresentano davvero il sangue e il corpo di Cristo davanti ai quali, come dice il più libertino degli invitati (non a caso, un generale francese che ha ben poco da spartire con i vincoli teologici della comunità in cui si è ritirato, se non l’amore inespresso – e ricambiato – per una delle due sorelle), i confini fra l’appetito del corpo e quello dell’anima si fanno indistinti. Lo stesso generale, del resto, è l’unico che, ora ignaro di avere a che fare di nuovo con la stessa cuoca, ha già avuto modo di sperimentare proprio a Parigi come l’arte di Babette (fatta di passione, artigianato e studio) sia in grado di trasformare “un pranzo in una specie di avventura amorosa” per cui, appunto, i sensi si liberano e la soddisfazione non soltanto gastronomica è inevitabile.
Ispirato dunque dal cibo stesso, fonte di vita (e, nella visione bigotta della comunità luterana, di peccato), il film celebra la ricchezza assolutamente univoca di qualsiasi arte (Babette spende diecimila franchi soltanto per la gioia, di nuovo corporea e non, dei suoi commensali), dunque anche dell’arte culinaria: come Babette ha modo di spiegare nel finale, “un artista non è mai povero purché dia il meglio di sé”.
L’arte culinaria come antidoto alla repressione dei desideri (ecco spiegato anche il significato del sottotesto sentimentale) e quindi – e non paia un paragone azzardato o blasfemo – alla repressione della vera fede e della vera spiritualità e il mangiare come scoperta di sé e del proprio inconscio imprigionato dai e nei vincoli della realtà sociale; già Karen Blixen, celebre autrice del racconto omonimo da cui il film è tratto, aveva inserito lo scritto all’interno di una raccolta sul tema dei “capricci del destino”, a indicare, per una volta, il lato ottimista della casualità della vita e la speranzosa possibilità umana di cambiare positivamente il corso di qualsiasi evento.
Il regista Axel, tuttavia, non è troppo interessato a questa tematica e preferisce affidare tutta la suggestione evocativa del suo film alla dimensione gastronomica (tanto che, come anche Mereghetti fa notare, il film fa venire davvero l’acquolina in bocca), la quale, fra echi di Veermer e di Bergman, finisce per influenzare persino la composizione stessa delle inquadrature e dei dialoghi.
Sorvegliato da un’acuta ironia e da un attento senso dell’immagine, il film è una sorpresa anche perché, rara volta, presenta il cibo, l’atto del mangiare (e il suo inevitabile aspetto godereccio) come occasioni di vita e non, come invece è facilmente riscontrabile in tante opere contemporanee maggiormente critiche (da Salò a La grande abbuffata, per citarne due), di contaminazione, di degrado, di mercificazione, di morte.
Impossibile, a questo punto, non citare in maniera dettagliata ciò che Babette cucina per il meraviglioso pranzo alla francese: brodo di Tartaruga e vino Amontillado, blinis Demidoff e Veuve Clicquot 1860, cailles en sarcophage e Clos Vougeot 1864.

Voto: 28/30

Roberto DONATI

12 - 01 - 98