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post mortem di Pablo Larraìn con Alfredo Castro, Antonia Zegers |
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28/30
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Dopo il successo di Tony Manero, Pablo Larraìn continua con la sua personale “clinica libidica” dell’infame buco nero dittatoriale che ha inghiottito per un po’ il Cile una quarantina di anni fa. Nei dintorni del fatidico 11 settembre in cui fu ucciso Salvador Allende, il mite e dimesso Mario, che lavora come funzionario all’obitorio, tenta di sedurre Nancy, la ballerina sua vicina di casa. Lei ha amicizie (e soprattutto parentele) “pericolose”, vicine al Partito Comunista. Ovviamente, con il moltiplicarsi dei cadaveri che Mario si vede recapitare crescono anche le complicazioni della bizzarra coppia. Per non parlare del fatto che Nancy scompare. Alla base, il disegno “romanzesco” è chiaro: la Storia con la esse maiuscola viene filtrata da vicende personali. L’una si specchia nell’altra. Il problema (e il potenziale rischio) sta ovviamente nel come questo debba accadere. Non è certo inusuale che, se dell’instaurarsi di una dittatura si tratta, si ricorra alla metafora della “repressione” in senso sessuale (o quantomeno emotivo). La prima cosa da NON fare, in questi casi, è (come in realtà hanno già fatto svariati film sudamericani alle prese con momenti analogamente incandescenti delle rispettive Storie) fermarsi all’equivalenza banale dittatura=repressione, sesso=liberazione. Post mortem grazie al cielo complica adeguatamente questo schema. È vero: Mario è il perfetto esemplare di quella “maggioranza silenziosa” unicamente intenta a farsi gli affari propri (quando la casa dei vicini viene data alle fiamme dal regime, l’unica cosa di cui si preoccupa è curare il cagnolino), grazie a cui gli autoritarismi hanno sempre prosperato. La Storia scorre letteralmente al fianco di Mario ma infinitamente lontana, senza alcun punto di contatto tra i due piani. Tutta la sua vita ruota intorno al poter contare sulla presenza di Nancy. L’aggancio con l’ascesa del regime, però, non riguarda banalmente questioni di “repressione” da parte di Mario, né verso se stesso né verso l’oggetto del proprio desiderio – ma piuttosto riguarda il porsi l’oggetto del desiderio come qualcosa che è già in partenza perduto, senza per questo smettere di volerlo possedere. È questo circolo vizioso che “scatta” nel momento in cui si istalla una dittatura. E per questo il film, appena dopo l’incontro decisivo tra Mario e Nancy, ci butta in faccia lo spiazzante flash-forward in cui il cadavere di lei sta all’obitorio preda delle cure di lui. Mario brama Nancy, ma la brama come morta-in-vita. Non si tratta affatto insomma della vita che viene oppressa dalla morte. Si tratta, invece, della contemplazione del cortocircuito che li stringe insieme. Quando ci si arrende a questo cortocircuito, si è già tra le braccia del totalitarismo. Nancy accondiscende alle avances di Mario piangendo insieme a lui. La regia di Larraìn ha il grosso pregio di materializzare proprio questo nodo “libidinale” decisivo: il piacere di rinunciare al piacere. In tutta la sua banalità, ordinarietà e mediocrità. Le atmosfere spettrali, vuote, scheletriche quasi, che costruisce nella sua Santiago deserta, livida e sconvolta sono da brivido: tutto questo gelo in cui è avvolto il film non è però funzionale a liberare di contro qualche energia repressa che se ne “scivola fuori”, ma (come conferma la lunga e geniale sequenza finale) al contrario si assiste al palese, asciutto, costernante compiacimento del congelare tutto il congelabile.
05:09:2010 |
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