Ponyo è una pesciolina che vuole diventare
umana. Il padre, che ha abbandonato l’impurità dell’umano per la perfezione
dell’acqua, non vuole. La aiuterà un bambino il cui padre ha anche lui
abbandonato la madre (non meno decisiva nella sua rabbiosa determinazione) e
la terra per lavorare come marinaio, e una specie di dea acquatico/lunare.
Intanto il mondo quasi scompare allagato dalle acque furibonde, ma non ha
troppa importanza.
Non ce l’ha, perché la catastrofe (onnipresente in ogni grande film
giapponese del dopoguerra che si rispetta) è un gioco da ragazzi,
letteralmente. Il bambino protagonista si salva perché ignora la catastrofe,
e continua a giocare, a mettere insieme pezzettini per fare una barchetta,
quella barchetta che lo salverà e lo farà sopravvivere dalla contemporanea
scomparsa del mondo cui nemmeno la madre scampa. In questo e molti altri
sensi, questo film è una sorta di fulgente “anti-Titanic”, simultaneamente
più ilare e più disperato del capolavoro di Cameron. La catastrofe non è più
come in quel film la fine e il compimento della tecnica, perché qui la
tecnica muore sì ma risorge nelle fattezze del gioco, che informa non solo
l’atteggiamento del protagonista ma anche il tono complessivo del film, che
svolazza a pelo d’acqua la catastrofe senza farsene intimorire, grazie alla
sua innocenza, grazie all’entusiasmante orchestrazione, ritmicamente davvero
sbalorditiva (basti per tutte la maestosa scena di Ponyo che esce dalle
acque e il suo trascinante crescendo) di suoni, colori ed emozioni. Di forme
soprattutto.
E qui veniamo all’altra distinzione-cardine rispetto a
Titanic. L’acqua tanto temuta
e riverita e rivestita di onnipotenza da Cameron è qui oggetto di vera e
propria ripulsa. L’acqua è per eccellenza informe, e l’informe è apertamente
disprezzato da Miyazaki, che orchestra un ennesimo trionfo di forme in
inarrestabile germinazione. Solo quand’è anche lunare (la dea buona della
luna) l’acqua “si salva”. Tant’è che Miyazaki tratta l’acqua come non fosse
quella materia indeterminata che è: le dà una forma, un volume e una
viscosità. Miyazaki avversa e combatte l’informe, ma la sua strategia è
l’esatto contrario del piazzare le forme da una parte e l’informe
dall’altra. Ciò che lui avversa e combatte è l’informe come non-materia
separata dalla materia, l’acqua come informità separata dalla forma. E
infatti ricicla l’informe dentro le forme, in guisa di una
stupefacente indeterminazione cromatica, tra l’impressionismo e il disegno
infantile, all’interno di contorni nettissimi che separano le figure a
prezzo anche dell’imprecisione prospettica o volumetrica.
Per questo la vecchia Toki, il personaggio-chiave proprio perché il meno
“sveglio” e quello che di converso rappresenta tutto ciò da cui il film
rifugge, non solo ha il terrore della catastrofe (quella catastrofe davanti
cui il film ci dice che non si può non giocare), ma soprattutto non
riconosce, e fraintende, la forma del piccolo origami che il bambino le
consegna in mano. La forma è tutto, e la sua stessa dissoluzione
catastrofica non può in alcun modo arrestarla. Si ricomincia sempre, anche
dopo il disastro, con lo stesso stupore per le forme che la vita (e Miyazaki
con lei, per il nostro stupore) sprigiona senza mai fermarsi, lo stupore di
Ponyo approdata alla Terra per ogni minuzia domestica che ai nostri poveri
occhi appare risaputa: accendere il gas, sollevare uno spaghetto…
È proprio vero, e Miyazaki ce lo ricorda da
decenni: niente ci è e ci sarà mai alieno, sconosciuto e meraviglioso quanto
l’umano.
03:09:2008
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