PINOCCHIO
di Roberto Benigni


Un album di figurine sulla rampa di lancio, la distribuzione della colonna sonora affidata a una major a stelle e strisce, rassegne teatrali e cinematografiche ad hoc in ogni centro urbano che si rispetti, una moltitudine di gadget di sicuro successo. Harry Potter? Niente affatto, si tratta di un ex imprendibile diavoletto che con gli anni, grazie alla sua verve dissacratoria e soprattutto al talento da Re Mida della consorte, si è ritrovato gallina dalle uova d'oro e salvezza del cinema italiano. La corazzata "Pinocchio" inizia la sua campagna di conquista dal suolo patrio, si lascia solleticare dai giudizi non eccessivamente osannanti di parte della critica e, dopo una sola settimana di programmazione, si avvia a polverizzare ogni record di incassi presso l'italico botteghino. Bisogna oltretutto ricordare che negli States la parabola di Collodi uscirà, preceduta da un'altrettanto estenuante campagna pubblicitaria, il giorno di Natale. Quale padre snaturato avrà il coraggio di vietare ai figlioletti cotanta fantasmagorìa? Qual giurato potrà mai, meno di tre mesi dopo, rifiutargli un Oscar? Si dirà: ecco un altro cribacchino pauperista, gonfio di livore e pronto a sparare a zero contro l'unico italiano capace di rinverdire i bei tempi andati di Fellini e Visconti. Ebbene, la verità è un'altra: il "Pinocchio" di Benigni perde il confronto sia con la versione televisiva Rai sia, e questo è ancor più preoccupante, con quella animata di Walt Disney. Che un toscano doc si facesse battere in casa da una spia russa (mefistofelico Walt...) coi baffetti alla Clark Gable, nessuno se lo sarebbe mai aspettato: a ben vedere, però, le animazioni del 1940 riescono ancora oggi nell'intento di emozionare, sorprendere, commuovere lo spettatore, eliminando la quarta parete che separa il palco dalla platea, lo schermo dalla poltroncina. Benigni no. Ci si può stupire al cospetto di un paese dei balocchi mai così chiassoso e sottesamente angosciante, si può apprezzare lo sforzo recitativo dei Fichi d'India nel ruolo del Gatto e la Volpe (non i risultati), ma le due ore in cui si condensa la vicenda si trascinano via senza memorabili fuochi d'artificio, seguendo un ritmo veloce ma niente affatto coinvolgente. Il (de)merito principale di tutto ciò va ascritto, con buona probabilità, a Fata Turchina-Nicoletta Braschi, sempre più a suo agio dietro il desk manageriale e sempre meno davanti alla macchina da presa: anche volendo sorvolare sulle ieratiche espressioni che paiono ispirate dall'automa di "Metropolis" è necessario ammettere che, quanto a phisuque du role, anche Anna Mazzamauro avrebbe potuto rivelarsi un'alternativa preferibile. Nonostante tutto questo, "Pinocchio" merita senza dubbio di essere visto al cinema: fra due anni, in salotto, l'eco di questo capolavoro fasullo si sarà spenta, i saltelli dell'ex Benignaccio saranno entrati di diritto nella storia del cinema (quale storia? quale cinema?) e la Miramax avrà fra le mani un nuovo blockbuster made in Tuscany pronto a frantumare la concorrenza...


Luca Caldarelli
29 - 10 - 02

 

Pinocchio… e lo schermo si colora. Luci, musica, scenografia, costumi, attori e soprattutto storia perfetta…Pinocchio di Benigni è un vero evento e ci ricorderemo del suo “Pinocchio”, come il “Don Giovanni” di Fellini, il “Ben Hur” e via dicendo. Non sbaglia film e i soldi non sembrano essere stati spesi a vuoto, certo un pò infantile, certo molto buonista, ma si sa benignaccio si è trasformato e per ora sono lontani i tempi dell’irriverenza e della satira. Il film fila diritto come un treno, con buoni ritmi e senza grandi sbavature, la storia lo permette, una storia a cui Benigni non fa sconti, cerca di tenere tutto dentro e si “dimentica” solo di un paio di cose che però non cambiano il senso anzi, il finale rende giustizia allo spirito di Collodi che affermò di non ricordare di aver scritto il “finale” che tutti conosciamo. Pinocchio ridiventa bambino ma così facendo si conforma ad un mondo che come dice Lucignolo lo ha “piegato”, Benigni ci riporta alla verità: questo mondo bisogna accettarlo ma non per questo si perde il nostro “spirito libero”… Non c’è nulla di Fellini, come aveva paventato Benigni, Fellini avrebbe capovolto la storia e la sua rappresentazione. Benigni mostra qualche limite corporeo e chi ha visto Totò fare Pinocchio capisce a cosa mi riferisco… Pinocchio è una grande opera allegorica, tutti i personaggi sono lo scimmiottamento della realtà, i giudici, i carabinieri, il Gatto e la Volpe, che rappresentano l’accerchiamento della società soggiogatrice e conformista a cui Pinocchio sfugge pagandone purtroppo il dazio. Negli anni trenta Totò ne trasse una rivista irriverente e per cui fu condannato alla deportazione: VOLUMINEIDE, cantando allegramente “Siamo tutti burattini in libertà”. Bennato nel 77 si ispirò per il famoso “Burattino senza fili” un’opera musicale di fantasia straripante. Benigni ne cava forse il film meno irriverente ma più bello della sua carriera. Belle le musiche, la scrittura anche (anche se c’era poco da scrivere), buona la regia e bravi gli attori. Kim Rossi Stuart diventa sempre più interessante, simpatico Peppe Barra nei panni del grillo, un tono sotto Fichi d’india, la Braschi e Giuffrè che praticamente mette in scena Luca Cupiello (protagonista di Natale in casa Cupiello di Eduardo) travestito da Geppetto. Un solo limite: Pinocchio è una grande storia, non c’è nulla che il cinema possa aggiungere…

Nicola Guarino
29 -10 - 02