PINA

di Wim Wenders
Documentario

di Gabriele FRANCIONI

 

25/30

 

Pina Bausch creava movimenti e gesti pensandoli come interpretazione (in vista di traduzione in qualcos’altro) delle composizioni di Gluck, Stravinskij, Purcell, Mahler. La nota musicale - contenuta anche nella parola/voce- era matrice della coreutica. Wenders intende invece il suono some uno dei fattori aggregati per produrre il testo filmico, senza che venga annullata la distanza tra esso e i semi del linguaggio cinematografico. In LISBON STORY il microfonista draga cellule sonore ovunque, ma queste non agiscono direttamente sui movimenti di macchina, non DIVENTANO cinema. Tutto, in Pina Bausch, diventava danza, in primis la musica. Ecco la differenza tra i due grandi amici, ecco il perché PINA non è così lontano come potrebbe sembrare da BUENA VISTA SOCIAL CLUB.
Stabilita questa premessa, occorre peraltro osservare come il tentativo wendersiano - ampiamente riuscito - di superare l’empasse ventennale nella quale si è infilata la sua arte utilizzi paradossalmente il 3D per scolpire un vuoto, cioè l’assenza definitiva della ballerina tedesca. In NICK’S MOVIE la vitalità era massima, anche nei movimenti della m.d.p., quanto più ci si avvicinava alla fine di Ray, mentre qui la creazione di profondità sfonda i limiti dell’abisso, facendocelo intuire nel buio di fondo di CAFé MULLER, correttamente riprodotto anche in una maquette color canna di fucile (camera obscura del Tempo) dove i danzatori e la stessa Pina sono collocati, sino all’immagine finale, che vede l’artista allontanarsi sullo schermo di fondo del plastico fattosi teatro reale. Questa sottolineatura della profondità di campo, insomma, questo continuo sfondamento non fa altro che spingere la Bausch nell’abisso, ce la sposta indietro definitivamente invece che riavvicinarcela.
Il film sceglie quattro coreografie storiche, “Café Müller”, “Le Sacre du printemps” (l’incipit), “Vollmond” e “Kontakthof”, attorno alle quali viene costruito un nitido meccanismo d’interviste mute ai ballerini della compagnia Wuppertal Tanztheater, che parlano per interposto voice over sui loro close-up malinconici, alternate a brevi segmenti coreografici bauschiani girati sia en plein air che in studio, sia a Wuppertal che a Essen e Solingen (sempre Westphalia,comunque). Wenders, confermando un’antica vocazione a metà tra road-movies e neue sachlichkeit, non riesce a staccarsi dal contesto-strada, dalle linee urbane che segnano l’andare, stavolta il traghettare da una dimensione all’altra. La sopraelevata è ora tetto per le scene urbane, ora spazio interno da abitare e il regista di PARIS, TEXAS dà il meglio di sé proprio nelle riprese cinetiche che si misurano con il movimento interno della città (o con i suoi paesaggi di archeologia urbana). La Bausch, come detto, non c’è: il progetto era partito nel 2008, quindi troppo tardi per poter lavorarci a quattro mani stabilendo le coordinate insieme a Wenders. Appare, molto fantasmatica, in brevissimi momenti che il regista sembra voler cancellare subito, quasi che l’evidenza di quel corpo bidimensionale possa scardinare, con la sua forza primigenia, il sistema di investigazione tridimensionale dei piani della visione.
L’omaggio di Wenders è stato quindi concepito come un testo filmico di pura seduzione visiva su alcuni tra i lavori più significativi della coreografa e non come quello che ci si sarebbe aspettati, ovvero la composizione articolata, il collage di materiali DI o SU Pina.Ci troviamo tra le mani, quindi, un oggetto levigato, compiutissimo sotto l’aspetto della forma, costruito tutto su movimenti della m.d.p. che seguono la danza ma non diventano essa, didascalicamente completo eppure monco, senza la vitalità fisica che solo il corpo indescrivibile della Bausch era in grado di comunicare, sia in quanto oggetto ripreso, sia come soggetto osservante. Il film di Wenders risulta privato della parola di lei e del suo sguardo, indagatore di anime, come ci viene detto da tutti i testimoni di decenni di attività infinita, inarrestabile, innaturalmente arrivata a un termine. PINA è voluttuoso, quasi un saggio su come filmare coreografie ora complesse ora minimaliste, ma, alla fine, assume la forma un po’ rigida di un collage costruito su uno schema ripetuto all’infinito.
Pina Bausch e il cinema: forse i lavori con e per Schroeter, Fellini e Almodovar (indirettamente citato qui per una velocissima coreografia su LEAOZINHO di Caetano Veloso) rendono e continueranno a restituirci la necessaria ma vitale bidimensionalità della tedesca sul grande schermo
 

07:11:2011

prima pubblicazione festival intern. del film di roma 2011

pina

Regia Wim Wenders

Germania/Gran Bretagna 2011, 106'
BIM

DUI: 04/11/2011

Documentario