Pina Bausch creava movimenti e gesti pensandoli come
interpretazione (in vista di traduzione in qualcos’altro) delle composizioni
di Gluck, Stravinskij, Purcell, Mahler. La nota musicale - contenuta anche
nella parola/voce- era matrice della coreutica. Wenders intende invece il
suono some uno dei fattori aggregati per produrre il testo filmico, senza
che venga annullata la distanza tra esso e i semi del linguaggio
cinematografico. In LISBON STORY il microfonista draga cellule sonore
ovunque, ma queste non agiscono direttamente sui movimenti di macchina, non
DIVENTANO cinema. Tutto, in Pina Bausch, diventava danza, in primis la
musica. Ecco la differenza tra i due grandi amici, ecco il perché PINA non è
così lontano come potrebbe sembrare da BUENA VISTA SOCIAL CLUB.
Stabilita questa premessa, occorre peraltro osservare come il tentativo
wendersiano - ampiamente riuscito - di superare l’empasse ventennale nella
quale si è infilata la sua arte utilizzi paradossalmente il 3D per scolpire
un vuoto, cioè l’assenza definitiva della ballerina tedesca. In NICK’S MOVIE
la vitalità era massima, anche nei movimenti della m.d.p., quanto più ci si
avvicinava alla fine di Ray, mentre qui la creazione di profondità sfonda i
limiti dell’abisso, facendocelo intuire nel buio di fondo di CAFé MULLER,
correttamente riprodotto anche in una maquette color canna di fucile (camera
obscura del Tempo) dove i danzatori e la stessa Pina sono collocati, sino
all’immagine finale, che vede l’artista allontanarsi sullo schermo di fondo
del plastico fattosi teatro reale. Questa sottolineatura della profondità di
campo, insomma, questo continuo sfondamento non fa altro che spingere la
Bausch nell’abisso, ce la sposta indietro definitivamente invece che
riavvicinarcela.
Il film sceglie quattro coreografie storiche, “Café Müller”, “Le Sacre du
printemps” (l’incipit), “Vollmond” e “Kontakthof”, attorno alle quali viene
costruito un nitido meccanismo d’interviste mute ai ballerini della
compagnia Wuppertal Tanztheater, che parlano per interposto voice over sui
loro close-up malinconici, alternate a brevi segmenti coreografici
bauschiani girati sia en plein air che in studio, sia a Wuppertal che a
Essen e Solingen (sempre Westphalia,comunque). Wenders, confermando
un’antica vocazione a metà tra road-movies e neue sachlichkeit, non riesce a
staccarsi dal contesto-strada, dalle linee urbane che segnano l’andare,
stavolta il traghettare da una dimensione all’altra. La sopraelevata è ora
tetto per le scene urbane, ora spazio interno da abitare e il regista di
PARIS, TEXAS dà il meglio di sé proprio nelle riprese cinetiche che si
misurano con il movimento interno della città (o con i suoi paesaggi di
archeologia urbana). La Bausch, come detto, non c’è: il progetto era partito
nel 2008, quindi troppo tardi per poter lavorarci a quattro mani stabilendo
le coordinate insieme a Wenders. Appare, molto fantasmatica, in brevissimi
momenti che il regista sembra voler cancellare subito, quasi che l’evidenza
di quel corpo bidimensionale possa scardinare, con la sua forza primigenia,
il sistema di investigazione tridimensionale dei piani della visione.
L’omaggio di Wenders è stato quindi concepito come un testo filmico di pura
seduzione visiva su alcuni tra i lavori più significativi della coreografa e
non come quello che ci si sarebbe aspettati, ovvero la composizione
articolata, il collage di materiali DI o SU Pina.Ci troviamo tra le mani,
quindi, un oggetto levigato, compiutissimo sotto l’aspetto della forma,
costruito tutto su movimenti della m.d.p. che seguono la danza ma non
diventano essa, didascalicamente completo eppure monco, senza la vitalità
fisica che solo il corpo indescrivibile della Bausch era in grado di
comunicare, sia in quanto oggetto ripreso, sia come soggetto osservante. Il
film di Wenders risulta privato della parola di lei e del suo sguardo,
indagatore di anime, come ci viene detto da tutti i testimoni di decenni di
attività infinita, inarrestabile, innaturalmente arrivata a un termine. PINA
è voluttuoso, quasi un saggio su come filmare coreografie ora complesse ora
minimaliste, ma, alla fine, assume la forma un po’ rigida di un collage
costruito su uno schema ripetuto all’infinito.
Pina Bausch e il cinema: forse i lavori con e per Schroeter, Fellini e
Almodovar (indirettamente citato qui per una velocissima coreografia su
LEAOZINHO di Caetano Veloso) rendono e continueranno a restituirci la
necessaria ma vitale bidimensionalità della tedesca sul grande schermo
07:11:2011
prima pubblicazione festival intern. del film di roma 2011 |