
Soltanto la vita e la morte sono
esperienze reali, quello che c’è in mezzo è un sogno, interrotto di tanto in
tanto da brevi sprazzi di veglia. E come nella dimensione dell’onirico la
sceneggiatura di Battiato e Sgalambro procede per accumulazioni visive e
letterarie dalla connessione improbabile. “Partiti da un soggetto
assolutamente pretestuoso - dice il regista - con Manlio Sgalambro abbiamo
scritto una sceneggiatura per una film-balletto”. PERDUTO AMOR è una
esperienza composita, in cui la sacralità del legame materno alla terra di
Sicilia si impasta con pillole di sapienza intellettuale ed una sensibilità
meditativa che deborda, non di rado, nel delirio creativo. Franco Battiato
cavalca senza ritegno le onde schiumose del suo incedere visionario, virando
spesso verso percorsi laterali alla trama del film, spaziando in modo del
tutto sconnesso dalla saggezza shamanica e tantrica alle fenomenologia del
cucito, delle intuizioni cosmologiche di Pascal alla filosofia di Eraclito,
dall’analisi critica della musica contemporanea alla riflessione sociologica
sulle contraddizioni della civiltà: “il mio intento – dice – era quello di
comporre e polausibilizzare questi sprazzi di veglia”.
Un incedere solo apparentemente scomposto, ma in realtà orientato verso quel
senso di assoluto che si percepisce, come un respiro continuato, per tutta
la durata della pellicola. L’aria, la terra, l’acqua, il fuoco, elementi
naturali colti nell’enfasi della luce mediterranea, della pietra vulcanica
dell’Etna, del calore vitale del mare ionio [dove sono nati gli dèi e l’uomo
poetico] non sono che echi di quel ‘centro di gravità permanente’ che
Battiato ha dichiarato, una volta, di aver trovato definitivamente
nell’’assenza di centro’.
“Il protagonista, un ‘cavaliere inesistente’, condivide con gli altri
caratteri (stereotipi di comodo) l’incontro con lo ‘straordinario’…” . “La
macchina da presa è la vera protagonista del film” e si muove disinvolta in
una foresta fitta di emozioni e ricordi, esperienze personali e cosmiche,
disegnando una geografia di melodie audio-visive in cui i vari elementi
compositivi e le incursioni epistemologiche incidono ma senza pesare,
scorrono fluidi in uno scenario ricco, solare, a tratti ironico e la
gessosità di una recitazione a volte di livello scolastico ha per converso
l’effetto di rendere più alienante le atmosfere. La preziosità letteraria
dei testi è amplificata dal carisma macchiettistico di personaggi che
piombano come squarci surreali e portano il loro tributo di devozione alla
cultura millenaria di una terra di sole e di colori. Primo fra tutti quello
strano personaggio di Manlio Sgalambro che esibisce un talento attoriale
tutto particolare; con tono sovraccarico di autoconvinzione, si cala come
deus ex machina di una rappresentazione scenica poetica e bizzarra, e chiude
il sipario con l’ordinazione al tavolo di una granita alla mandorla quale
ermetico ed assoluto atto di devozione alla sua terra.
Un film non privo di pecche, dall’ingenuità di un autobiografismo fin troppo
evidente all’autocompiacimento manieristico ed accademico delle citazioni
filosofiche, ma tutto sommato un’opera degna di un artista che, in altri
campi, ha raggiunto esiti elevati lavorando sempre verso una ricerca di
espressione spirituale del tutto personale e rifuggendo i compromessi.
Voto:27/30
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