Nel nostro tentativo di ricognizione del cinema obamiano, che
ci ostiniamo a credere potenzialmente diverso e a vocazione speleologica
(i.e. scandaglio di mondi sommersi, investigazione del non-detto, etc),
c’imbattiamo nell’inciampo di una vera e propria aporia, poi riconvertita in
pura interrogazione: impossibile scegliere tra la generica attitudine
liberal di un MILK, che sciacquava e candeggiava nella liquidità assente di
un programmatico non-stile gli impulsi e le derive eterodosse di tematiche
off-limits, e la carsicità caustica di un universo radicalmente
indipendente, che mangia a morsi l’anima innocentemente corrotta della
middle-class americana suburbana (e così facendo si autoconsuma, sino alla
spossatezza produttivo/distributiva di tutti i film di Solondz)?
La risposta è scontata, poiché in un’epoca che trascina sulla scena del
Reale problemi come quello della sanità, anche il primo presidente di colore
opta per una riconferma, se non rafforzamento, della funzione
lenitivo-curativa della macchina hollywoodiana.
Non è un caso che FORGIVENESS (questo il titolo originario, poi abbandonato,
di LIFE DURING WARTIME) sia stato già venduto in Polonia, Serbia, Turchia e
Scandinavia.
Come una decalcomania, i film di Solondz aderiscono a tutto ciò che è
laterale. Troppo in là, spostato, marginale. Come questi Paesi ancora
sfiancati dalla Storia, che li lascia, imperterrita, fuori dai bordi del
ring (che conta).
Non è un caso neanche il fatto che lo stesso Solondz abbia dei precedenti
come insegnante d’ inglese per neo-immigrati russi d’inizio anni Novanta.
In questo senso, nonostante il regista sbandieri in conferenze stampa un
ritorno alla svagata ironia di DOLLHOUSE (WELCOME TO THE) e all’impianto
corale di HAPPINESS - buona l’ultima, ma sembra solo uno spot per accostare
promozionalmente la pellicola ai suoi maggiori successi, prima del blackout
distributivo di STORYTELLING e PALINDROMES - questa è arte “statica”,
lontana dai fremiti del Nuovo, coerentemente palindroma nel senso che fa
andata e ritorno su se stessa, mettendo in rappresentazione pulsioni
primarie con esiti mai catartici, in ambienti ammorbati da un senso di
perennità del male ingiudicabile. Un cul de sac etico, che però va
percorso per capire l’innocenza e l’umanità dello sgardo del regista:
avanti, indietro, avanti ancora, palindromicamente.
Il regista, come sempre, non condanna alcunché, perché è parte di un
universo osservato nella sua primordialità vitale, dove ogni attò può
sperare di essere perdonato (forgiveness).
Solondz evita l'introspezione psicologica, devitalizzando ogni eventuale
insorgere di pathos, e dando vita ad un cinema della crudeltà, che si
astiene da giudizi sommari sui mostri che ritrae e da qualunque
somministrazione di antidoti etici alla disperazione.
Era così per la ragazzina dodicenne alla ricerca primaria della maternità,
genialmente moltiplicata in donne di ogni età (PALINDROMES) come nei
disvelamenti di HAPPINESS e STORYTELLING, dove l’indicibilità di pedofilia e
di sessualità interrazziale - tabù ancora nel 2010! - venivano esposti con
la grazia di una Diane Arbus e la crudezza dei Chapman Brothers.
La “guerra” cui accenna il titolo orinale, oltretutto, ha zero a che vedere
con quella a scala mondiale che si combatte tra forze incommensurabili se
osservate da Miami o dal New Jersey. Guerre come faccende private, semmai,
lontane dai grands recits, che invece sorvolano questo microcosmo
d’istintualità sessuale compulsiva, unico antidoto alla solitudine assoluta
(si veda anche il recente CHOKE).
Il codice genetico dell’anomalia è l’abuso di normalità. La microbiologia
del quotidiano registra una latenza del tragico a favore dell’orrore
perdonato da Solondz,che ha sempre lavorato su livelli espressivi di
assoluta scarnificazione del Vero (a differenza dei vari Araki, Korine,
Clark, Van Sant, irresistibilmente attratti dall’opzione onirica o
grottesca, se non patinata) nell’ alveo di mondi estremi anche perché
laterali, abbandonati a se stessi, ma di una divorante purezza.
Solondz, un quasi-rabbi in età giovanile, è l’antitesi woodyalleniana: il
grottesco ottenuto senza le sovrastrutture della Cultura e della Citazione.
Chi può negare che, pur nella sua versione sfumata e da tabloids, anche l’
altro regista abbia affrontato, ad esempio, il tema della pedofilia?
Il perfetto cast di LIFE DURING WARTIME, un eccezionale mix di british,
irish, wasp e black, si predispone a seguire l’andirivieni robotico di
presunte aberrazioni domestiche sulla linea che dicevamo palindroma del cul
de sac etico del film, attingendo alla staticità espressiva dello
straordinario talento irlandese Ciaràn Hinds (IN BRUGES, MUNICH,THERE WILL
BE BLOOD), meritevole di riconoscimenti assoluti, e all’ ambigua innocenza
di Shirley Henderson, inglese (TRAINSPOTTING, 24 HOURS PARTY PEOPLE, MARIE
ANTOINETTE). Allison Jenney e Michael Lerner (entrambi in CELEBRITY; poi in
AMERICAN BEAUTY, JUNO o SAVING GRACE), correttamente wasp, osservano la
scena con calibrata espressività.
Il film è anche un grande spot per attori - pure loro - assai laterali,
periferici, cui è bello potersi affezionare, in attesa che anche altri si
accorgano di loro.
18:04:2009
pubblicata originariamente in
venezia.66 |