PEOPLE I KNOW
di Dan Algrant
con Al Pacino, Kim Basinger



Eli Wurman (Al Pacino) è un famoso PR e attivista politico che si batte per i diritti civili delle minoranze. Il suo lavoro è gestire l’immagine di divi e starlette. Una notte Cary Launer (Ryan O’Neal), l’ultimo dei clienti di serie A della lista di Eli e probabile candidato al senato, si trova nei guai a causa di una star del piccolo schermo, Jilli (Tèa Leoni), ed ingaggia Eli affinché con discrezione sistemi la situazione. Convinto di affrontare la solita routine Eli si trova coinvolto in un omicidio e ad entrare in possesso di informazioni scottanti che lo travolgeranno a tal punto da pensare di lasciare tutto e ritirarsi in campagna. Un’ultima cosa trattiene Eli dal farlo, una serata di beneficenza organizzata per aiutare tre ragazzi di colore trattenuti illegalmente dall’ufficio immigrazione.
Nelle intenzioni, purtroppo non realizzate, un film che dovrebbe scavare nella storia personale del protagonista, figura fragile e decadente, intossicato dall’esistenza, banalmente rappresentato dall’uso smodato di farmaci e alcool, che per una vita intera si è immolato agli altri (la sua attività politica) e all’immagine altrui (i suoi clienti). Un personaggio che vuole riappropriarsi della propria storia, e quindi riacquistare il senso della vita prima di ritirarsi da essa.
L’autore muove il suo eroe tra due direttrici, una orizzontale e piatta rappresentata dalla superficialità dello star system, dai locali in di Manhattan e dall’importanza di farsi immortalare con le persone giuste e dai fotografi giusti; l’altra, verticale e tremendamente profonda, identificata dai luoghi dove personaggi influenti e di spicco scoprono la loro corruzione e vengono imbanditi i veri tavoli del potere. Qui Eli affonda in quello che lo aveva circondato da sempre ed è incapace di resistervi, ma prosegue lo stesso spostandosi da una dimensione all’altra, ma più affonda più il suo vecchio corpo si macera e cosi anche la sua personalità. Cerca speranza in Victoria, vedova del fratello e ancora di salvezza che vuole portarlo via con se, non prima però di lasciare il segno portando a termine il suo ultimo gesto pubblico, quindi “immagine” fine ultimo di tutta la sua esistenza. Per realizzarlo non disdegna di usare il ricatto, arma che appartiene alla dimensione verticale, ma lasciando percepire in chi lo osserva una totale mancanza di confidenza con questo oggetto.
Al Pacino trascina nella sua recitazione troppo epica e manierata il personaggio cui dovrebbe dar vita, donandogli paradossalmente un tale spessore che non appartiene chiaramente a quest’ultimo. La regia, sufficiente, e la fotografia, ottima nel rappresentare questa doppia Manhattan, non salvano una sceneggiatura debole, che non riesce a seguire nelle intenzioni il suo protagonista all’interno di questo mondo oscuro e non accessibile ai più; con aggiunta di critica sociale (il film sarà gradito dai democratici e un po’ meno dai repubblicani), sempre molto superficiale, ci è stato proposto il solito film di belle intenzioni, ma solo quelle e tutto il resto sono immagini presto dimenticate.

VOTO: 20/ 30

Giulio Amato


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