|
|
la pecora nera
di Ascanio Celestini |
|
|
|
![]() |
|
30/30
|
|
Un tentativo di recensione musicale, da musicista a musicista La prima volta che vidi Ascanio fu nel 2003. Si trovava nel Veneto, a Malo, a presentare Radio clandestina. Memoria delle Fosse Ardeatine. Non ci capii nulla, parlava troppo velocemente. Sarà stata una sorta di reazione inconscia (sono cresciuta con una sorella che parlava tanto velocemente che ero io spesso a dover tradurre agli altri ciò che diceva…), o forse, più probabilmente, la mia mente poco attenta di quella serata.
Ma il segno l’aveva lasciato.
Ed è così che ho cominciato ad appassionarmi ai suoi spettacoli, e a capire che una delle chiavi del suo stile unico è proprio la narrazione veloce, che costringe l’ascoltatore ad un’attenzione ferrea, senza alcuna possibilità di distrazione, pena la perdita di contenuti importanti. Una velocità che diviene un fondamentale elemento musicale, nel rincorrersi di parole ripetute, di cadenze che ritornano, di cantilene, filastrocche e ritornelli, di pause e di accenti.
Ascanio musicista
Ascanio ha anche pubblicato un album di canzoni, Parole Sante, vincitore del Premio Ciampi 2007 come “Miglior debutto discografico dell’anno”, Nello stesso palco in cui mi ero esibita qualche decina di minuti prima, in qualità di vincitrice ufficiale del premio, Ascanio cantava, microfono alla mano, dipanando le parole quasi lentamente… E così ci siamo conosciuti, e l’anno dopo, durante la produzione di in doma, mi è venuto spontaneo chiedergli di prestare la sua voce per un annuncio radiofonico che introduce Asteróide 482. Non solo ha accettato volentieri, ma l’ha fatto pure prima di un suo spettacolo, nel sottoscala di un teatro. Ascanio, come se leggesse le previsioni del tempo, descrive minuziosamente il percorso di un meteorite potenzialmente distruttivo, e lo fa con la sua voce diretta, senza fronzoli. La voce corre veloce, come chi ha tante di quelle cose da raccontare che non basta una vita per dirle tutte, e allora bisogna stringere le frasi, e creare quel filo invisibile e tenace che lega la sua mente alla tua.
Ascanio musicista anche da regista
PECORA NERA è quasi senza colonna sonora, ma è pieno di musica. La narrazione di Ascanio è il soggetto principale e scandisce il ritmo del film con i temi ricorrenti. Si tratta di frasi ripetute con la cadenza di filastrocche o cantilene, che creano un vero e proprio sottofondo musicale, che l’orecchio ricorda, e ricanta dentro di sè. Ecco che diventano elementi musicali imprescindibili dalle immagini e dalla storia, proprio come lo sono alle nostre orecchie le musiche dei film che ricordiamo di più. Questi ‘ritornelli’ della voce narrante si intrecciano ai ritornelli dei personaggi del film, che se li rimbalzano, con un gioco di dentro-fuori, in cui le parole danzano da un piano all’altro, creando una specie di effetto stereofonico, e incidendosi ancor più profondamente nella memoria dello spettatore.
C’è il tema della gallina (‘pio pio pio, la gallina, l’ovarola, cova l’ovo e poi se lo magna, pio pio pio’), che alla metà del film diventa una canzone vera e propria, quella cantata da un uomo sulla spiaggia. La canzone è dello stesso Ascanio, che ne parla nelle sue annotazioni durante le riprese: Xavier canta una canzone che è un po’ una storia all’incontrario, una gallina che mangia le uova, una gatta che caccia il figlio storto, un defunto che va al proprio funerale, un grillo morto che canta nell’orto. Il tema della gallina rimabalza dunque dalla voce narrante al personaggio di Nicola alla voce dell’uomo che canta sulla spiaggia. E si intreccia pure col ritornello della nonna di Nicola ‘puzza ancora del culo della gallina (l’ovo)’, che a sua volta passa alla voce narrante. Del tema della gallina fa parte anche un altro ritornello, ‘io che ti ho fatto ti disfo, come ti faccio così ti disfo, pio pio pio’. Solo quando sentiamo la voce dell’uomo sulla spiaggia, scopriamo che le due frasi fanno parte della stessa canzone, un po’ come se nel corso del film avessimo sentito due frammenti melodici distinti, e scoprissimo ad un certo punto che uno è lo sviluppo dell’altro.
C’è poi il tema dell’ordine: ‘chi mette in ordine trova tutto, chi non mette in ordine non trova niente’. è il tema ricorrente del manicomio, la legge suprema di pazienti, suore e dottori, di carcerieri e carcerati, espressa a voce da chi non è nè da una parte nè dall’altra, ovvero Nicola. La suora non è portatrice di musica, ma Nicola che l’osserva sì: ‘la suora apre, la suora chiude, plin plin, con le chiavi’.
Quel ‘plin plin’ ritorna in un magistrale tema, tanto incisivo da presentarsi una volta sola: il tema dell’orologio.‘Che ore sono?’, e di lì un susseguirsi di scansioni orarie, come nello scoccare lento delle ore del campanile che cadenzano la lunghissima Notte Santa di Gozzano, che imparavo a memoria (costretta ahimè!) da bambina. Ma anzichè culminare in un gioioso ‘È nato! Alleluja! Alleluja!’, il tema dell’orologio di Ascanio apre uno squarcio che dà le vertigini: ‘Il diavolo fa le sveglie e Dio gliele scarica. è tardi, è la fine dell’orologio’.
Molti dei temi di Ascanio giocano con i numeri, proprio come le conte. Così la conta del matto che scavalca 99 cancelli e poi torna indietro, la conta del bambino che vorrebbe mangiare 10, 100, 1000 cremini e dunque non ne mangia nemmeno uno. Tutte conte che hanno un inconfondibile sapore d’infanzia, ma che sono anche ancestrali e ipnotiche, come le storie de le Mille e una notte. I bambini ripetono, ripetono, e attraverso la ripetizione la parola acquista una magia sonora ed esce da se stessa: ‘vade retro Satàna, vade retro Satàna’ dice un compagno di classe al piccolo Nicola, e anche quando torni a casa dopo il film lo ripeti così, con quel ritmo e quell’accento sulla seconda ‘a’ di Satana. Ed è sempre un bambino, Nicola, a coniare nuovi ritornelli, come quello di ‘Pancotti Maurizio’, o ‘quel deficiente di Pancotti Maurizio’, che subito infetta gli altri bambini del film.
Gli sfondi sonori a questo rincorrersi circolare di parole sono dati dai tre ambienti in cui si svolge la maggior parte delle azioni: manicomio, supermercato, aria aperta. I corridoi del manicomio echeggiano dei passi della suora e della tv, colonna sonora costante per i pazienti, quasi una sorta di disturbo permanente, che copra con un disordine sonoro il disordine dei pensieri. I corridoi del supermercato (altra faccia del manicomio, dove tutto è in ordine) risuonano di una musica generica, d’ambiente, a volte sono dei jingle, a volte si sente prima un sax, poi una marimba, ma il tutto molto confuso, un ‘disturbo’, ancora una volta, come quello che sentiamo ogni giorno nei locali commerciali, e non solo.
L’aria aperta, infine, riecheggia di primavera, del cinguettio degli uccellini, non del traffico delle macchine. Crea così un contrasto netto con gli altri due ambienti soffocanti, anche in termini uditivi, e riporta l’ascolto e gli umani a una ‘naturalità’ perduta.
Si capisce perché un film così ricco di suggestioni sonore, fra rumori realistici e parlato onirico, non abbia bisogno di altro. Eppure una piccola musica si presenta, sempre la stessa, in vari momenti del film. Si tratta di un carillon, che al primo ascolto mi fa pensare al carillon del Casanova di Fellini, ovvero la musica di Nino Rota. Leggiadro, delicato, ammaliante, magnetico. Arriva nel primo momento in cui si svela il tema dell’amore fra Nicola e la bambina, nella cantina piena di ragni. ‘Potevamo stare insieme per sempre’, dice la piccola, come se avesse percorso tutta la storia di una vita e trovato la chiave del suo mistero, l’infinito possibile.
Il carillon ritorna col miracolo della lucertola, dove il tema della morte si intreccia col tema della magia. I ragni prima, la lucertola ora, come se animali e bambini parlassero una lingua comune che comprende l’atto crudele, la morte (mangiare i ragni, spezzare la coda alla lucertola), il miracolo (la lucertola resuscita), la vita e l’amore. Ancora il carillon appare quando la suora distribuisce le pere ai pazienti. Pere che delle pere non hanno più l’aspetto, pere cotte, ‘morte’, come lo sono le persone che vivono in quel manicomio. La terza volta il carillon ritorna nel momento culminante del film: Nicola adulto che, dopo essere impazzito nel supermercato, vomita tutta la roba mangiata. La quarta volta ritorna alla morte di Pancotti Maurizio. La quinta e ultima volta quando Nicola, oramai divenuto matto a tutti gli effetti, dopo l’elettroschock, benedice-saluta dal davanzale il muratore e ritorna nella sua prigione, il manicomio. è un climax, come se il carillon avesse percorso le tappe di una necessità superiore, quella della disgregazione, del disordine, della mancanza di amore e della falsità dei sogni, delle magie e dei miracoli, della morte fisica e poi interiore. è la vittoria del realismo degli adulti e delle loro prigioni, contro il realismo magico deì bambini, che parlano alla natura e ai marziani. Anche la bambina che dubita dell’amore di Nicola con la razionalità filosofica della sua frase lapidaria è in realtà un’adulta. Ed è proprio un bambino a morire infilzato dal cancello di una prigione eretta dagli adulti.
Infine un accenno alle canzoni, che sono immanenti al film, non colonna sonora. Sono di fatto due. La prima è sempre la canzone della gallina (che compare anche come ‘tema’ recitato), dello stesso Ascanio. Viene cantata a voce piena dall’uomo sulla spiaggia, tutta intera, e ritorna smozzicata dalla voce narrante; era comparsa, prima, più forte, nella festa dell'oratorio, quando i bambini sono andati via e il prete la canta, ballando con un piccolo Zorro. La seconda è un accenno di Sapore di sale di Gino Paoli. Appena accennata, appunto, con un primo piano sulla bocca, come a gustare da vicino i grani salati. La canticchia la donna marziana, poco prima di trovare la sua tragica fine per mano dei due fratelli, e la canticchia Nicola adulto, che si è innamorato, per la seconda volta (o per il secondo attimo, visto che lo definisce ‘l’amore di un attimo’) di Marinella.
Il film si chiude ancora una volta con un parlato che è musica pura, ovvero la struggente poesia di Alberto Paolini, ‘…lasciate a noi le vostre tristezze, a noi che non andiamo sui prati e non possiamo vedere il sole’, che ci fa risentire tutti quei suoni che hanno fatto da sfondo al film, la tv, i passi nei corridoi, gli uccellini là fuori. I titoli di coda scorrono ìn silenzio, portando con sè l’eco di quelle parole.
Concludo questa analisi che pare così razionale svelando che io il film l’ho visto due volte. La prima, alla sua presentazione alla Mostra del Cinema. La seconda, in un piccolo cinema della mia città, fornita di quadernetto per gli appunti (ma senza pila…). In entrambe le occasioni non ho potuto frenare la commozione, in particolare a partire dalla scena in cui Nicola sta di fronte al banco dei pesci surgelati, muti come lui, ma con un mare dentro.
20:11:2010
PS. Tra l'altro, frugando nel sito di Ascanio alla ricerca della canzone della gallina, ho scoperto che c'è un riferimento al mio disco (non lo sapevo). Qui il link. |
|
la pecora
nera Italia 2010, 93'
DUI: 01 ottobre 2010 |
|
|