La giovane starletta televisiva Gabrielle è
presa tra il maturo dongiovanni (felicemente sposato) Charles, scrittore di
successo, e l’immaturo e infantile figlio di papà ricchissimo (e di una
gelida buonadonna) Paul. Il primo non la considera, il secondo stravede: di
conseguenza preferirà il primo ma finirà per oscillare senza posa tra l’uno
e l’altro, fino al tragico epilogo e alla beffarda e inattesa conclusione.
“L’assenza di Penelope”: il titolo del best-seller di Charles racchiude il
segreto dell’infittirsi di intrighi che il film dipana (con la consueta
lucidità di messa in scena), perché Gabrielle è sì il perno di tutto il
meccanismo ma non è in alcun modo la sua intenzione a muoverlo come invece
la Huppert “freddo genio del male” in Grazie per la cioccolata (o come la
diabolica madre di Paul). L’impersonalità dell’eroina (che le fa fare
carriera velocemente in televisione) stavolta è acefala, un vuoto pneumatico
che muove gli eventi e alla fine li risucchia dentro. Gabrielle è tagliata
in due (come il film, peraltro, attraversato da una netta cesura verso i due
terzi) perché vittima e artefice degli eventi nello stesso tempo, una e
doppia come illustra il grandioso finale che non va rivelato. È la sua
stessa impersonalità a scindersi, perché non è nemmeno intenzionale.
Ma perché Chabrol è così ossessionato dal “vuoto” che è il femminile,
cercandone di film in film (più di 50) sempre nuove configurazioni? Perché
in quel vuoto vede la terribile impersonalità automatica della macchina da
presa, già oggetto e soggetto di terrore nei suoi due adorati numi tutelari
Hitchcock e Lang. Anche qui, la sua macchina da presa è l’invisibile
ragnatela che tesse il visibile ricucendo e suturando sguardi, spazi,
movimenti, nascondendo maliziosamente la propria presenza dentro il tessuto
e nel corso della tessitura. Basti ricordare la perfetta messa in scena
dell’aggressione armata durante la celebrazione, o i giochi di sguardi e le
finte soggettive tra Gabrielle e Charles, che per pura regia incarnano il
loro desiderio (quando invece l’indesiderato Paul fa irruzione
nell’inquadratura senza alcuna modulazione).
Intelaiare una tela, e rivelarne l’inconsistenza. L’unico “autore”, Charles,
maniaco delle citazioni come Chabrol, è costantemente ridicolizzato: inutile
illudersi di poter controllare la duplicità (come fa lui, che gestisce da
maestro, e apertamente, moglie e amante) – bisogna lasciarsi dolentemente
andare all’impersonalità come fa Gabrielle, lasciarsi “tagliare in due” da
essa. Come Chabrol che pur rigidissimo controllore della propria regia sa
perfettamente che è la macchina da presa a fare tutto quasi da sola – lui è
solo una specie di tramite, metà impotente e metà onnipotente.
04:09:2007
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