
Arriva nelle nostre sale il nuovo polpettone all'americana che i famelici
dello spettacolo cinematografico ad alti costi accoglieranno come ultimo
capolavoro dei geni d'oltreoceano. Abbiamo già capito che si tratta di
un autorevole kolossal destinato tanto al record d'incassi quanto al lancio
cosmico di nuove stelle. Lo abbiamo capito dai 70 milioni di dollari spesi
per il marketing nazionale e 50 per quello internazionale, una imponente
valanga di pubblicità che ci assilla ormai da mesi in tutti i condimenti:
spot televisivi, inserti sulla carta stampata, opuscoli, manifesti, gadgets;
una valanga montata dagli indiscussi signori del "mercato su grande schermo",
pompati dall'entusiasmo di mostrare il loro fiammante prodotto, ma ancora
di più pressati dall'ansia di portare a frutto il loro mostruoso investimento
finanziario; una valanga che non risparmia neppure il mercato giapponese,
dove il film è pubblicizzato come struggente dramma amoroso più che come
ricostruzione storiografica in chiave patriottica di una tragica vicenda
bellica, nella speranza che l'impatto sentimentale possa addolcire la
fin troppo esplicita accusa di scorrettezza strategica da parte delle
forze armate nipponiche: il popolo dei kamikaze, si sa, è abbastanza ossessionato
da vezzi culturali come l'amor di patria e il rigore morale e c'è da scongiurare
il timore che possano prendersela a male.
Abbiamo capito anche che PEARL HARBOR sarà un significativo protagonista
nella prossima notte degli Oscar, essendo ormai pratica consolidata presso
questi colossali professionisti del cinematografo farsi i films e poi
premiarseli in un orgasmico rigonfiamento di orgoglio nazionalistico e
autocompiacimento imprenditoriale, di fronte al quale purtroppo la nostra
millenaria tradizione artistica europea, ormai stanca e sfiduciata, sembra
chinare tragicamente il capo, salvo poi tentare di ricomporsi con timida
dignità in quei festivalucci di casa nostra dove l'impatto tecnologico
è secondario alla riflessione e lo spettacolo è subordinato all'arte.
Autori ed attori vedranno schizzare vertiginosamente i loro già milionari
cachet e questo è il meritato tornaconto per aver accettato di lavorare
al meglio in condizioni di "ristrettezza economica": la realizzazione
del film infatti ha richiesto drastici tagli alle spese, che dal budget
preventivato di 200 milioni di dollari sono calate a soli 135 (pare inoltre
che Affleck si sia dovuto accontentare di 250.000 dollari anzichè dei
10 milioni pattuiti).
Supportata da tali premesse l'aspettativa è quella di trovarsi di fronte
ad un'opera commerciale ma importante che tenta di sfondare nel terreno
impegnativo del genere bellico, un genere tra i più praticati nella storia
del cinema, cosicchè recensendo un kolossal miliardario che pretende di
porsi al pari di illustri predecessori il confronto appare imprescindibile.
Nel genere si sono cimentati nomi noti della settima arte, da Kubrick
a Coppola, da Ray a Cimino, da Stone a Weir, da Rosi a Monicelli per arrivare
ai neofiti del genere Spielberg ed Annaud, ciascuno utilizzando i mezzi
tecnici, le soluzioni di messa in scena e l'impegno culturale coerenti
con lo stile del proprio fare cinema. Pur mantenendo la costante ovvia
della brutalità delle bombe, il tema della guerra è stato sviluppato secondo
sensibilità diverse: per citarne alcuni Kubrick ha meditato col suo tocco
impeccabile e severo sulla assurda dualità dell'individuo, Coppola ha
un po' abusato del concetto di orrore per dare sfoggio del suo indiscutibile
e ineguagliabile talento visionario, qualcuno ha puntato sul valore del
patriottismo, altri hanno tentato di mostrare il volto più terrificante
della violenza dell'uomo contro l'uomo indulgendo talvolta nella trappola
dell'autocompiacimento drammatico (Malick lo lasciamo volutamente al di
fuori dell'elenco perchè trattasi di tutt'altra storia) per arrivare a
Spielberg, massima espressione della maniera hollywoodiana, che da fantasioso
narratore di storielle per bambini si è negli ultimi tempi reinventato
autore d'impegno ed ha inaugurato la stagione della trama mielosamente
romanzesca, abilmente impacchettata in un'overdose di retorica.
Ci si aspettava che PEARL HARBOR riproponesse la ricostruzione realistica
e sommamente spettacolare degli orrori della guerra, l'ennesima celebrazione
della facile retorica antimilitarista secondo i canoni della tradizione
americana del genere bellico, sullo sfondo della quale fosse piazzata
una sottostrama sentimentale, magari a lieto fine, a conferire sostanza
narrativa e a garantire una più agevole fruibilità del prodotto. In realtà
invece scopriamo che l'intreccio è risolto in una forma ancor più sfacciata.
Al pari dell'Annaud de IL NEMICO ALLE PORTE, Bay si spinge oltre la lezione
di Spielberg ed imbastisce una storia in cui la tragedia della guerra,
lo scenario di distruzione e dolore, che a tratti viene composto con dettagiata
perizia tecnica, strutturano un teatrino di cartapesta del tutto secondario
su cui si articola la trama sproporzionatamente predominante della love-story.
E la love-story, c'è da dirlo, è tra le peggiori. Nella fattispecie si
tratta di un triangolo amoroso tra due amici per la pelle che si innamorano
della stessa donna. Il film inizia con la descrizione della loro infanzia:
due fiabeschi fanciullini biondi con una passione innata per il volo che
giocano a pilotare un aereoplano in una distesa di campagna, legati da
una amicizia da libro Cuore deprivato di valore simbolico, piccoli ma
coraggiosi come cani da caccia, uniti nella lotta contro i soprusi degli
adulti. Da grandi diventano due bellissimi ed invincibili Top Gun antichizzati
in stile anni quaranta, i quali, sprezzanti del pericolo, si esibiscono
in raggelanti acrobazie aeree. Uno, più forte, dominante, con atteggiamento
paterno; l'altro timido e dolce ma ugualmente virtuoso. Ad un certo punto
uno di loro viene spacciato per morto in battaglia e l'altro gli ruba
la amata, sverginandola e ingravidandola. Quando il primo torna vivo e
vegeto l'amicizia pare irrimediabilmente compromessa, ma poi, come era
facile prevedere, si rinsalda nel momento della prova di coraggio: l'accidente
dell'attacco giapponese rifonde la loro unione nella lotta contro il nemico
e risveglia l'attenzione dell'uno nei confronti dell'altro. Durante il
combattimento a Pearl Harbor sfruttano con successo la complicità e l'intesa
che era alla base dei loro stupidi giochetti aerei. Nella missione impossibile
in cui vengono di seguito impegnati l'intruso muore eroicamente e la coppia
iniziale si ricompone per una vita di eterna felicità coniugale col figlioletto
che porta il nome dell'amico scomlparso.
Il nucleo centrale della storia d'amore è collocato in primo piano, ma
si svolge su un substrato arricchito da una tale abbondanza di vicende
da offrire materiale narrativo per due o più film, mediocri ma completi:
la guerra in Europa nell'esercito inglese, l'offensiva giapponese alla
flotta americana del Pacifico, la missione impossibile su Tokyo, l'amore
tra "il pilota" e l'infermiera, il riscatto del cuoco nero incoraggiato
dal suo comandante. I personaggi che si muovono tra gli orditi della narrazione
sono i soliti: oltre agli eroi, bellissimi e perfetti, abbiamo l'eroina,
anch'essa ballissima e perfetta, che dimostra di essere all'altezza dei
sui amanti per determinazione e coraggio allorchè si scontra con l'urgenza
del soccorso ai feriti; sfilano poi ovunque bellezze da copertina (più
o meno tutte le infermiere), gli ufficiali inverosimilmete "cazzuti" (Alec
Baldwin), la macchietta (il soldato balbuziente), i nemici subdoli e senza
scrupoli, ecc.
Tutto è così drasticamente stilizzato, così rigidamente stereotipato da
frustrare l'interesse allo sviluppo della storia e smorzare il coinvolgimento
emozionale, nonostante l'impatto visivo delle scenografie e delle ricostruzioni
dei combattimenti. I duelli aerei, i quaranta minuti di bombardamento,
il cui montaggio ha richiesto ben quattro mesi di lavoro, è di indiscutibile
suggestione: ci mancherebbe altro! 135 milioni di dollari spesi, la prestazione
professionale di una equipe di mestieranti tecnicammente iperaddestrati
come il tecnico degli effetti speciali John Frazier e la IL&M di Lucas,
coinvolgimento dell'esercito, 700 candelotti di dinamite, 350 bombe esplose
nell'arco di 7 secondi, 4000 galloni di benzina, 6 camere a terra ed altre
in aria, 6 navi da guerra date alle fiamme. Tutto questo sproporzionato
dispiegamento di forze e di denaro per fingere qualche minuto l'illusione
di una battaglia aereonavale su uno schermo bidimensionale di pochi metri
quadrati: a questo si è ridotto il cinema?
Ma non è abbastanza per rendere digeribili tre interminabili ore di frasi
fatte, di stereotipi, di melodrammi melensi, di stolido umorismo da cartone
giapponese.
Infine, ad appesantire il carico ben oltre i limiti della sopportazione
subentra la prepotente esplosione di spocchioso patriottismo americano,
per non dire nazionalismo, sfrontatamente ostentato senza alcun filtro
interpretativo, che se da un lato può essere considerato parzialmente
giustificato data la loro posizione militare ed economica e per certi
versi, nietzschianamente, ammirato, dall'altro dovrebbe irritare l'orgoglio
di spettatori educati alla creatività ed alla cultura, e stimolarli a
recuperare almeno nel campo delle arti la loro propria dignità con un
atteggiamento di sufficienza, se non di disprezzo, nei confronti di chi
vuole farci credere che simili pagliacciate siano il Cinema.
Voto: 14/30
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