PEARL HARBOR
di Michael Bay
con Ben Affleck, Josh Hartnett, Kate Beckinsale, Alec Baldwin e Jon Voight



Arriva nelle nostre sale il nuovo polpettone all'americana che i famelici dello spettacolo cinematografico ad alti costi accoglieranno come ultimo capolavoro dei geni d'oltreoceano. Abbiamo già capito che si tratta di un autorevole kolossal destinato tanto al record d'incassi quanto al lancio cosmico di nuove stelle. Lo abbiamo capito dai 70 milioni di dollari spesi per il marketing nazionale e 50 per quello internazionale, una imponente valanga di pubblicità che ci assilla ormai da mesi in tutti i condimenti: spot televisivi, inserti sulla carta stampata, opuscoli, manifesti, gadgets; una valanga montata dagli indiscussi signori del "mercato su grande schermo", pompati dall'entusiasmo di mostrare il loro fiammante prodotto, ma ancora di più pressati dall'ansia di portare a frutto il loro mostruoso investimento finanziario; una valanga che non risparmia neppure il mercato giapponese, dove il film è pubblicizzato come struggente dramma amoroso più che come ricostruzione storiografica in chiave patriottica di una tragica vicenda bellica, nella speranza che l'impatto sentimentale possa addolcire la fin troppo esplicita accusa di scorrettezza strategica da parte delle forze armate nipponiche: il popolo dei kamikaze, si sa, è abbastanza ossessionato da vezzi culturali come l'amor di patria e il rigore morale e c'è da scongiurare il timore che possano prendersela a male.
Abbiamo capito anche che PEARL HARBOR sarà un significativo protagonista nella prossima notte degli Oscar, essendo ormai pratica consolidata presso questi colossali professionisti del cinematografo farsi i films e poi premiarseli in un orgasmico rigonfiamento di orgoglio nazionalistico e autocompiacimento imprenditoriale, di fronte al quale purtroppo la nostra millenaria tradizione artistica europea, ormai stanca e sfiduciata, sembra chinare tragicamente il capo, salvo poi tentare di ricomporsi con timida dignità in quei festivalucci di casa nostra dove l'impatto tecnologico è secondario alla riflessione e lo spettacolo è subordinato all'arte. Autori ed attori vedranno schizzare vertiginosamente i loro già milionari cachet e questo è il meritato tornaconto per aver accettato di lavorare al meglio in condizioni di "ristrettezza economica": la realizzazione del film infatti ha richiesto drastici tagli alle spese, che dal budget preventivato di 200 milioni di dollari sono calate a soli 135 (pare inoltre che Affleck si sia dovuto accontentare di 250.000 dollari anzichè dei 10 milioni pattuiti).
Supportata da tali premesse l'aspettativa è quella di trovarsi di fronte ad un'opera commerciale ma importante che tenta di sfondare nel terreno impegnativo del genere bellico, un genere tra i più praticati nella storia del cinema, cosicchè recensendo un kolossal miliardario che pretende di porsi al pari di illustri predecessori il confronto appare imprescindibile. Nel genere si sono cimentati nomi noti della settima arte, da Kubrick a Coppola, da Ray a Cimino, da Stone a Weir, da Rosi a Monicelli per arrivare ai neofiti del genere Spielberg ed Annaud, ciascuno utilizzando i mezzi tecnici, le soluzioni di messa in scena e l'impegno culturale coerenti con lo stile del proprio fare cinema. Pur mantenendo la costante ovvia della brutalità delle bombe, il tema della guerra è stato sviluppato secondo sensibilità diverse: per citarne alcuni Kubrick ha meditato col suo tocco impeccabile e severo sulla assurda dualità dell'individuo, Coppola ha un po' abusato del concetto di orrore per dare sfoggio del suo indiscutibile e ineguagliabile talento visionario, qualcuno ha puntato sul valore del patriottismo, altri hanno tentato di mostrare il volto più terrificante della violenza dell'uomo contro l'uomo indulgendo talvolta nella trappola dell'autocompiacimento drammatico (Malick lo lasciamo volutamente al di fuori dell'elenco perchè trattasi di tutt'altra storia) per arrivare a Spielberg, massima espressione della maniera hollywoodiana, che da fantasioso narratore di storielle per bambini si è negli ultimi tempi reinventato autore d'impegno ed ha inaugurato la stagione della trama mielosamente romanzesca, abilmente impacchettata in un'overdose di retorica.
Ci si aspettava che PEARL HARBOR riproponesse la ricostruzione realistica e sommamente spettacolare degli orrori della guerra, l'ennesima celebrazione della facile retorica antimilitarista secondo i canoni della tradizione americana del genere bellico, sullo sfondo della quale fosse piazzata una sottostrama sentimentale, magari a lieto fine, a conferire sostanza narrativa e a garantire una più agevole fruibilità del prodotto. In realtà invece scopriamo che l'intreccio è risolto in una forma ancor più sfacciata. Al pari dell'Annaud de IL NEMICO ALLE PORTE, Bay si spinge oltre la lezione di Spielberg ed imbastisce una storia in cui la tragedia della guerra, lo scenario di distruzione e dolore, che a tratti viene composto con dettagiata perizia tecnica, strutturano un teatrino di cartapesta del tutto secondario su cui si articola la trama sproporzionatamente predominante della love-story. E la love-story, c'è da dirlo, è tra le peggiori. Nella fattispecie si tratta di un triangolo amoroso tra due amici per la pelle che si innamorano della stessa donna. Il film inizia con la descrizione della loro infanzia: due fiabeschi fanciullini biondi con una passione innata per il volo che giocano a pilotare un aereoplano in una distesa di campagna, legati da una amicizia da libro Cuore deprivato di valore simbolico, piccoli ma coraggiosi come cani da caccia, uniti nella lotta contro i soprusi degli adulti. Da grandi diventano due bellissimi ed invincibili Top Gun antichizzati in stile anni quaranta, i quali, sprezzanti del pericolo, si esibiscono in raggelanti acrobazie aeree. Uno, più forte, dominante, con atteggiamento paterno; l'altro timido e dolce ma ugualmente virtuoso. Ad un certo punto uno di loro viene spacciato per morto in battaglia e l'altro gli ruba la amata, sverginandola e ingravidandola. Quando il primo torna vivo e vegeto l'amicizia pare irrimediabilmente compromessa, ma poi, come era facile prevedere, si rinsalda nel momento della prova di coraggio: l'accidente dell'attacco giapponese rifonde la loro unione nella lotta contro il nemico e risveglia l'attenzione dell'uno nei confronti dell'altro. Durante il combattimento a Pearl Harbor sfruttano con successo la complicità e l'intesa che era alla base dei loro stupidi giochetti aerei. Nella missione impossibile in cui vengono di seguito impegnati l'intruso muore eroicamente e la coppia iniziale si ricompone per una vita di eterna felicità coniugale col figlioletto che porta il nome dell'amico scomlparso.
Il nucleo centrale della storia d'amore è collocato in primo piano, ma si svolge su un substrato arricchito da una tale abbondanza di vicende da offrire materiale narrativo per due o più film, mediocri ma completi: la guerra in Europa nell'esercito inglese, l'offensiva giapponese alla flotta americana del Pacifico, la missione impossibile su Tokyo, l'amore tra "il pilota" e l'infermiera, il riscatto del cuoco nero incoraggiato dal suo comandante. I personaggi che si muovono tra gli orditi della narrazione sono i soliti: oltre agli eroi, bellissimi e perfetti, abbiamo l'eroina, anch'essa ballissima e perfetta, che dimostra di essere all'altezza dei sui amanti per determinazione e coraggio allorchè si scontra con l'urgenza del soccorso ai feriti; sfilano poi ovunque bellezze da copertina (più o meno tutte le infermiere), gli ufficiali inverosimilmete "cazzuti" (Alec Baldwin), la macchietta (il soldato balbuziente), i nemici subdoli e senza scrupoli, ecc.
Tutto è così drasticamente stilizzato, così rigidamente stereotipato da frustrare l'interesse allo sviluppo della storia e smorzare il coinvolgimento emozionale, nonostante l'impatto visivo delle scenografie e delle ricostruzioni dei combattimenti. I duelli aerei, i quaranta minuti di bombardamento, il cui montaggio ha richiesto ben quattro mesi di lavoro, è di indiscutibile suggestione: ci mancherebbe altro! 135 milioni di dollari spesi, la prestazione professionale di una equipe di mestieranti tecnicammente iperaddestrati come il tecnico degli effetti speciali John Frazier e la IL&M di Lucas, coinvolgimento dell'esercito, 700 candelotti di dinamite, 350 bombe esplose nell'arco di 7 secondi, 4000 galloni di benzina, 6 camere a terra ed altre in aria, 6 navi da guerra date alle fiamme. Tutto questo sproporzionato dispiegamento di forze e di denaro per fingere qualche minuto l'illusione di una battaglia aereonavale su uno schermo bidimensionale di pochi metri quadrati: a questo si è ridotto il cinema?
Ma non è abbastanza per rendere digeribili tre interminabili ore di frasi fatte, di stereotipi, di melodrammi melensi, di stolido umorismo da cartone giapponese.
Infine, ad appesantire il carico ben oltre i limiti della sopportazione subentra la prepotente esplosione di spocchioso patriottismo americano, per non dire nazionalismo, sfrontatamente ostentato senza alcun filtro interpretativo, che se da un lato può essere considerato parzialmente giustificato data la loro posizione militare ed economica e per certi versi, nietzschianamente, ammirato, dall'altro dovrebbe irritare l'orgoglio di spettatori educati alla creatività ed alla cultura, e stimolarli a recuperare almeno nel campo delle arti la loro propria dignità con un atteggiamento di sufficienza, se non di disprezzo, nei confronti di chi vuole farci credere che simili pagliacciate siano il Cinema.

Voto: 14/30

Mirco GALIE'
17 - 08 - 01


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