
Per l’ennesima volta, Philip K. Dick
viene ripreso da Hollywood. In questo film, non tra i peggiori
fortunatamente del “Woo americano”, una specie di futuribile “spia
aziendale” a cui viene sottratta la memoria dopo le operazioni si
trova coinvolto suo malgrado nel furto (e sfruttamento) di un’epocale
invenzione che permette di conoscere il futuro. Tra le molte cose che
gli si mettono contro, deve fronteggiare l’assenza di memoria
dell’esperienza in questione che la sua “prassi professionale”
prevede.
Sarà il caos a salvarlo. Molte delle scene d’azione si risolvono solo
con un espediente che sconvolga la situazione e renda impraticabile lo
scontro aperto (l’esplosione nei canali della metro, gli estintori
esplosi durante l’interrogatorio dell’FBI, e altro). Non a caso il
protagonista (un Affleck anche più gommoso e inerte del solito)
re-incontra la biologa che lo aiuterà a salvarsi allorché questa
simula un tifone nel suo laboratorio. Il caos avrebbe potuto salvare
anche questo film. Nella prima parte specialmente, il tempo
dickianamente out of joint (come si intitola una sua opera)
viene reso in modo antitetico rispetto al grande
Minority Report
spielberghiano, dove l’azione e la struttura testuale che la
presuppone e la contiene raggiungevano e esplicitavano il paradosso
(paradosso parallelo a quello temporale del plot) attraverso il loro
semplice combaciare. Qui, la struttura testuale del film esplode, i
tre anni di memoria che Affleck perde rimangono un buco nel
film, se ne sente lo squilibrio. I richiami passato-presente-futuro
(la funzione “profetica” dell’antincendio, gli indizi che il
protagonista invia al se stesso del futuro) sono piazzati lì, slegati
non certo dalla storia ma sicuramente dalla conscia dispersività della
messa in scena – tutto torna ma la regia scombina ad arte le carte in
tavola. Ci sono vari flashback e flash-forward “in libertà”, piazzati
incoerentemente rispetto al disegno generale narrativo (compreso
quello capitale che vede la morte del protagonista), che perde
importanza rispetto al singolo elemento, e infatti una delle
invenzioni rese possibili dai ladrocini del protagonista, all’inizio,
libera la figura tridimensionale creata da un pc dallo schermo stesso,
restituendola completamente allo spazio – dunque una cornice che
svanisce. Come svanisce appunto la struttura del film, a fronte della
smisurata importanza concessa all’attimo, all’istante presente, spesso
determinante in molte situazioni del film ma mai prevedibile, sempre
apparentemente scisso (grazie alla regia e al montaggio) rispetto allo
scorrere della narrazione. E sovente dilatato innaturalmente (come ha
sempre fatto Woo, provocando in certi casi addirittura paragoni non
infondatissimi con Peckinpah), come nella scena in cui l’eroe torna
alla coscienza dopo la perdita della memoria dei tre anni in cui ha
agito a favore della compagnia che voleva realizzare il modo per
vedere il futuro.
Peccato che poi le cose cambino. Il caos degenera in confusione, e da
quando la biologa interpretata dalla Thurman si affianca all’eroe le
scene d’azione perdono parecchio in efficacia, si rallentano,
l’importanza dell’attimo va a farsi benedire disperdendosi in una
fanghiglia visiva di poco conto. Arriva persino il temutissimo momento
in cui si dà fondo ai più vieti cliché di John Woo (colombe, allusioni
cristologiche, pistole incrociate). Avremmo preferito farne a meno.
Rimane un’idea di messa in scena interessante e particolarmente
azzeccata, ma non sviluppata fino in fondo. Comunque in definitiva
rimane un prodotto non così malvagio.
Voto: 26/30
23.02.2003
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