PAYCHECK

di John Woo

Con: Ben Affleck, Uma Thurman

di Marco GROSOLI

Per l’ennesima volta, Philip K. Dick viene ripreso da Hollywood. In questo film, non tra i peggiori fortunatamente del “Woo americano”, una specie di futuribile “spia aziendale” a cui viene sottratta la memoria dopo le operazioni si trova coinvolto suo malgrado nel furto (e sfruttamento) di un’epocale invenzione che permette di conoscere il futuro. Tra le molte cose che gli si mettono contro, deve fronteggiare l’assenza di memoria dell’esperienza in questione che la sua “prassi professionale” prevede.
Sarà il caos a salvarlo. Molte delle scene d’azione si risolvono solo con un espediente che sconvolga la situazione e renda impraticabile lo scontro aperto (l’esplosione nei canali della metro, gli estintori esplosi durante l’interrogatorio dell’FBI, e altro). Non a caso il protagonista (un Affleck anche più gommoso e inerte del solito) re-incontra la biologa che lo aiuterà a salvarsi allorché questa simula un tifone nel suo laboratorio. Il caos avrebbe potuto salvare anche questo film. Nella prima parte specialmente, il tempo dickianamente out of joint (come si intitola una sua opera) viene reso in modo antitetico rispetto al grande Minority Report spielberghiano, dove l’azione e la struttura testuale che la presuppone e la contiene raggiungevano e esplicitavano il paradosso (paradosso parallelo a quello temporale del plot) attraverso il loro semplice combaciare. Qui, la struttura testuale del film esplode, i tre anni di memoria che Affleck perde rimangono un buco nel film, se ne sente lo squilibrio. I richiami passato-presente-futuro (la funzione “profetica” dell’antincendio, gli indizi che il protagonista invia al se stesso del futuro) sono piazzati lì, slegati non certo dalla storia ma sicuramente dalla conscia dispersività della messa in scena – tutto torna ma la regia scombina ad arte le carte in tavola. Ci sono vari flashback e flash-forward “in libertà”, piazzati incoerentemente rispetto al disegno generale narrativo (compreso quello capitale che vede la morte del protagonista), che perde importanza rispetto al singolo elemento, e infatti una delle invenzioni rese possibili dai ladrocini del protagonista, all’inizio, libera la figura tridimensionale creata da un pc dallo schermo stesso, restituendola completamente allo spazio – dunque una cornice che svanisce. Come svanisce appunto la struttura del film, a fronte della smisurata importanza concessa all’attimo, all’istante presente, spesso determinante in molte situazioni del film ma mai prevedibile, sempre apparentemente scisso (grazie alla regia e al montaggio) rispetto allo scorrere della narrazione. E sovente dilatato innaturalmente (come ha sempre fatto Woo, provocando in certi casi addirittura paragoni non infondatissimi con Peckinpah), come nella scena in cui l’eroe torna alla coscienza dopo la perdita della memoria dei tre anni in cui ha agito a favore della compagnia che voleva realizzare il modo per vedere il futuro.
Peccato che poi le cose cambino. Il caos degenera in confusione, e da quando la biologa interpretata dalla Thurman si affianca all’eroe le scene d’azione perdono parecchio in efficacia, si rallentano, l’importanza dell’attimo va a farsi benedire disperdendosi in una fanghiglia visiva di poco conto. Arriva persino il temutissimo momento in cui si dà fondo ai più vieti cliché di John Woo (colombe, allusioni cristologiche, pistole incrociate). Avremmo preferito farne a meno.
Rimane un’idea di messa in scena interessante e particolarmente azzeccata, ma non sviluppata fino in fondo. Comunque in definitiva rimane un prodotto non così malvagio.
 

Voto: 26/30

23.02.2003

 


::: altre recensioni :::