
Del film di Debrauwer (premiato dal pubblico all'ultimo Festival di Cannes)
vi rimarranno la tenerezza della storia, la bravura di Dora van der Groen
(Pauline), i mirati primi piani atti ad estrapolare i dialoghi (a volte
feroci) dal contesto, l'addio alle scene di Paulette (Ann Petersen) e
il Valzer dei Fiori che scandisce tutta la vicenda.
La storia è presto detta: alla morte di Martha, la sorella che fino a
quel momento ha badato a Pauline, ritardata mentale ma ingenua e candida
come una bambina di otto anni, quest'ultima viene prima affidata alla
stella dell'operetta locale, Paulette, un'altra delle sorelle, poi a Cécile
(Rosemarie Bergmans), l'ultima della famiglia - che ha deciso di vivere
a Bruxelles con un francese più snob di lei - infine nuovamente a Paulette.
Il fatto è che nessuna di loro vuole occuparsi di Pauline (se non fosse
per il testamento che invece le obbliga al contrario) e così ci troviamo
di fronte ad una serie di situazioni drammatiche, a volte esasperanti
ed esasperate, ma sempre trattate con leggerezza.
Come i bambini, Pauline non è in grado di allacciarsi le scarpe (ma la
situazione si risolverà brillantemente grazie a Pauline stessa), ha bisogno
che qualcuno le prepari la colazione ogni mattina (o forse, come si vedrà,
è perché non le hanno mai spiegato come si fa) e vive dei suoi piccoli
quotidiani riti (innaffiare i fiori è la sua attività preferita, l'altra
è quella di visitare il negozio di Paulette, coloratissimo e kitsch come
quest'ultima).
Ma, in realtà, il film è più di questo: Debrauwer di fatto ha girato una
storia sull'incomunicabilità e l'apparenza (la stessa protagonista sembra
un'anziana signora ma ha l'eta mentale di una bambina), sulle frustrazioni
della vita e la pochezza delle persone. La scena dell'addio all'operetta
da parte di Paulette ne è la dimostrazione: in quel momento tutte le sue
aspettative, tutto ciò che sta per dire (anche un inchino è una forma
di comunicazione insegnano i semiotici) si scontra con un sipario che
chiude in fretta ogni tentativo di dialogo. Si sorride a denti stretti.
In fondo, nel film, questo sottotesto viene qua e là esplicitato: Pauline
non capisce ciò che dice Albert, il compagno di Céline e Albert non capisce
cosa dice Pauline. L'incomunicabilità (il sottotesto) tra loro regna
sovrana. Quando Céline accusa Paulette di non averla mai fatta parlare, ci
accorgiamo che in quel momento sta accadendo di nuovo, Paulette prende
la parola e la mette a suo modo a tacere. Di nuovo, quando Pauline tenta
di acquistare correttamente vol-au-vent e carne (nell'unica volta
in cui non si reca con i biglietti - uno dei tanti tramiti della parole
- dal macellaio) è il preconcetto della di lui moglie che ne causa il
fallimento a livello comunicativo. I frequenti primi piani sullo scavato
volto di Dora van der Groen isolano le parole di chi le sta attorno. Si
parla di lei come se non fosse presente, o non capisse, senza rispetto.
La stessa Paulette, in fondo, si renderà conto di quanto vuoti siano i
dialoghi quotidiani delle sue amiche, di quanto sia importante comunicare
le proprie emozioni e non è difficile indovinare se alla fine terrà
Pauline con sé o no.
Dopo una serie di delusioni, Paulette sentirà il bisogno fisico di
condividere con la sorella più sfortunata (ma solo perché noi siamo fortunati,
in una dicotomia della normalità) la propria vecchiaia: da questo punto di
vista (normalità/anormalità)è paradossale che il luogo più vivo (dal punto
di vista degli scambi emotivi) sia l'ospizio che accoglie Pauline verso
il finale.
Debrauwer ha girato un film sicuramente a più livelli - o forse è il solito
lector in fabula - riuscendo a renderlo facile da gustare,
come un bicchiere d'acqua bevuto tutto d'un fiato in piena estate.
A proposito, "on the rocks" significa letteralmente "sui sassi": capirete
il senso della frase vedendo il film, e vi accorgerete che Pauline, seppur
incompresa (nel senso letterale del termine), è l'unica, semioticamente
parlando, a regalare alle parole il loro vero significato...
Voto: 28/30
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