
Impressionante come in tempi di villaggio
globale una sapiente campagna pubblicitaria, condita di assurde ma ben
mirate polemiche (il presunto antisemitismo), possa arrivare a trasformare
un filmetto girato senza troppe pretese in un evento mediatico. Ed è
sorprendente notare come la critica abbia assecondato il fenomeno
dividendosi in modo clamoroso, parlando di capolavoro o di opera ignobile. A
rigor di logica, infatti, dal regista di Braveheart non ci si poteva
aspettare altro che un onesto lavoro d’artigianato.
E d’artigianato in effetti si tratta, e nemmeno del più raffinato.
Prima di tutto Gibson non ha saputo discernere il credente dall’artista, e
sottrarsi alla tentazione di aderire fedelmente alla pagina evangelica. Una
scelta sbagliata, perché spoglia i personaggi di qualsiasi dimensione
drammaturgica, cristallizzandoli in icone senza spessore incapaci di
relazionarsi l’una all’altra. E così se figure fondamentali (Pilato, Giuda)
rimangono opache, altre (Caifa, Erode, Pietro) non emergono nemmeno dalla
penombra. Ma ciò che più inaridisce il racconto sono i reparti stagni dentro
i quali sembrano muoversi i protagonisti: nonostante gli inutili flashback,
non emergono i rapporti che Cristo ha con Maria, con gli apostoli, con Dio
(la cui presenza non si avverte mai), ma soprattutto con sé stesso: quali
sono le sue paure, i suoi dubbi? Tutti aspetti che, ad esempio, erano ben
delineati nello “scandaloso” Jesus
Christ Superstar. E allora, se si eccettuano alcuni picchi macabri,
sino alla crocifissione il film si trascina in un esangue andamento
descrittivo alla Zeffirelli.
Ma se dal punto di vista narrativo si dimostra sciatto, Gibson azzecca un
paio di intuizioni visive che assicurano al film una sua potenza figurativa.
E’ bella l’idea di contrapporre ad un Cristo fisico, massiccio, quanto mai
terreno, un diavolo asessuato, ascetico: se il bene è di questo mondo, il
male proviene da un’altra dimensione, luogo incomprensibile che in un
periodo di guerre tra civiltà ben evoca la paura per il diverso. E poi il
corpo straziato, dilaniato sino a divenire un inerme pezzo di carne, ha
tradizionalmente un’importanza metaforica nella storia del cinema. E se
vent’anni fa si peccò di troppa immaginazione nel parlare de L’Esorcista
come di un film sul Vietnam, di certo il viso sfigurato della piccola,
innocua protagonista presagiva il ritorcersi della società americana su se
stessa dopo il decennio che ne aveva sancito la perdita d’innocenza. Negli
stessi anni George Romero diceva qualcosa di più esplicito sul sistema
consumistico coi suoi morti viventi che si aggiravano fra i reparti di un
supermercato. Non è quindi azzardato parlare di questo
The Passion come di un film
sull’undici settembre, e di questo Cristo martoriato come dell’occidente
ferito.
E’ in questi agganci con l’attualità che il film trova la sua ragion
d’essere, la sua dimensione politica, più o meno condivisibile ma di certo,
questa sì, profondamente sentita.
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Voto: 18/30
21.04.2004
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