Il papà
di Giovanna potrebbe diventare il film simbolo di uno dei fil
rouge di questa 65ma Mostra del Cinema. Anche nel film di Pupi Avati
infatti si ritrova (come è stato in JAY, in COLD LUNCH, giusto per citarne
alcuni), una brutalizzazione della figura materna. Apparentemente una donna
algida e preoccupata solo della sua bellezza, incapace di restituire al
marito l’amore che le viene dato, inadeguata al suo ruolo di madre,
probabilmente arrivato troppo presto.
I diversi piani di lettura che la pellicola di Avati offre, riconducono a
un unico, crudele, quanto necessario punto di svolta: lo snaturamento
dell’istinto materno impedisce la reale crescita di una coscienza in
Giovanna, preda così di una drammatica incapacità di distinguere il bene dal
male, la realtà dalla fantasia. La campana di vetro sotto cui il papà di
Giovanna fa crescere la beneamata figlia non è solo un modo per proteggerla
dal pericolo dell’infelicità, ma anche una via per nascondere a se stesso il
fallimento del suo matrimonio. La Bologna tanto amata da Pupi Avati si offre
come palcoscenico di questo dramma ambientato nell’Italia Fascista:
Giovanna, una giovane studentessa dell’Accademia delle Belle Arti, vive in
mondo tutto suo, ovattato e in qualche modo distorto dai tentativi del padre
di proteggerla dalle brutture della vita. La realtà posticcia in cui
Giovanna sopravvive, la porta a commettere un omicidio efferato, e di cui
probabilmente riuscirà a comprendere il significato solo anni e anni dopo.
Il delitto, inizialmente identificato con un omicidio di matrice politica,
non è altri che il frutto del disagio di Giovanna: una volta ammessa la sua
colpevolezza e le luci giacobiniste si sono spente, allora inizia il vero
film di Pupi Avati. Tutti gli sforzi del padre di Giovanna per tenerla
lontana dalla sofferenza, per proteggerla dal mondo sono stati fallimentari.
Tutto si sgretola: gli sguardi fra Delia il suo vicino di casa crescono di
intensità, di calore.
Una reazione a catena di cui finalmente si può vedere la scintilla
primordiale: non dalla sofferenza il papà di Giovanna tentava di
proteggerla, bensì dalla sua stessa madre. La normale concezione del
rapporto madre figlia viene a crollare: non una competizione della figlia
nei confronti della madre, non un rapporto conflittuale. Bensì il nulla.
Come una donna privata dell’utero, Delia rimuove la figlia dalla sua vita,
considerandola solo “sua figlia”, ovvero figlia del padre. Mai un volta la
nomina, mai una volta ne parla riferendosi a lei come “nostra figlia” o “mia
figlia”. Da chi era davvero necessario proteggere Giovanna? E chi era
davvero necessario proteggere: Delia o Giovanna?
Esplicitando i livelli profondi della narrazione, si dispiega una figura
paterna surrogata di una madre spogliata dal suo istinto materno, che lo
tollera a malapena, e che rifugge la costruzione di un vero rapporto con la
figlia poiché in essa vede la sua negazione di essere donna.
Negli anni della seconda Guerra Mondiale, l’Italia è anche questa: la vita
è anche questa. I sentimenti non si lasciano fermare dalle bombe, dalle
morti improvvise, dagli ospedali psichiatrici. Con morboso realismo il papà
di Giovanna rinuncia alla sua vita per tentare di garantirne una alla sua
bambina, creando un legame claustrofobico ed esclusivo: la sottile linea che
separa il bene dall’ossessione svanisce all’ombra delle insane espressioni
che compaiono sul volto della eccellente Alba Rohrwacher.
Avati avrebbe facilmente potuto spingere il pubblico alle lacrime,
iniettando buone dosi di pathos fra una scena e l’altra: non si è fatto
tentare da questa facile risoluzione, lasciando allo spettatore la libertà
di arrabbiarsi, di commuoversi e anche di inquietarsi di fronte a una
pellicola del genere.
Non sarebbe stata poi una scelta del tutto gratuita quella di portare la
platea a un facile turbamento emotivo, mostrando più nel dettaglio
l’ospedale psichiatrico in cui viene internata la protagonista del film.
Diversa è stata però la politica di Avati, che ha preferito invece portare
il suo spettatore a un diverso tipo di riflessione. Giovanna chiede al padre
di suggerire alla madre di indossare i suoi guanti neri, se mai un giorno
andrà a trovarla in ospedale. Conscio del fatto che la moglie aveva ormai
rimosso la povera figlia pazza, Silvio Orlando decide di portare
direttamente a lei i guanti della madre. La ragazza possiede quindi come
oggetto feticcio della madre proprio un qualcosa che le permette di isolarsi
dalla realtà. Le sue mani e la sua pelle sono protette dai guanti neri della
sua bellissima madre, così come i discorsi del padre volevano proteggere la
sua anima dalle sofferenze del mondo. Il guanto come una maschera che la
protegge dal mondo ma che allo stesso tempo risulta l’unico tramite utile
per la sua vera scoperta. Una maschera, un prolungamento del corpo, un
oggetto feticcio della madre: un segno che svela finalmente il vero disagio
della ragazza. Per quanti fino a quel punto avevano colpevolizzato il padre
per i disturbi mentali della giovane, la realtà si dispiega in un
inaspettata colpevolezza dell’assente madre di Giovanna. Semplicemente
inquietante.
01:09:2008 |