IL PAPà DI GIOVANNA

di Pupi Avati

con Alba Rohrwacher, Ezio Greggio

Altri interpreti: Francesca Neri, Silvio Orlando

di Valentina VELLUCCI

 

25/30

 

Il papà di Giovanna potrebbe diventare il film simbolo di uno dei fil rouge di questa 65ma Mostra del Cinema. Anche nel film di Pupi Avati infatti si ritrova (come è stato in JAY, in COLD LUNCH, giusto per citarne alcuni), una brutalizzazione della figura materna. Apparentemente una donna algida e preoccupata solo della sua bellezza, incapace di restituire al marito l’amore che le viene dato, inadeguata al suo ruolo di madre, probabilmente arrivato troppo presto.
 I diversi piani di lettura che la pellicola di Avati offre, riconducono a un unico, crudele, quanto necessario punto di svolta: lo snaturamento dell’istinto materno impedisce la reale crescita di una coscienza in Giovanna, preda così di una drammatica incapacità di distinguere il bene dal male, la realtà dalla fantasia. La campana di vetro sotto cui il papà di Giovanna fa crescere la beneamata figlia non è solo un modo per proteggerla dal pericolo dell’infelicità, ma anche una via per nascondere a se stesso il fallimento del suo matrimonio. La Bologna tanto amata da Pupi Avati si offre come palcoscenico di questo dramma ambientato nell’Italia Fascista: Giovanna, una giovane studentessa dell’Accademia delle Belle Arti, vive in mondo tutto suo, ovattato e in qualche modo distorto dai tentativi del padre di proteggerla dalle brutture della vita. La realtà posticcia in cui Giovanna sopravvive, la porta a commettere un omicidio efferato, e di cui probabilmente riuscirà a comprendere il significato solo anni e anni dopo. Il delitto, inizialmente identificato con un omicidio di matrice politica, non è altri che il frutto del disagio di Giovanna: una volta ammessa la sua colpevolezza e le luci giacobiniste si sono spente, allora inizia il vero film di Pupi Avati. Tutti gli sforzi del padre di Giovanna per tenerla lontana dalla sofferenza, per proteggerla dal mondo sono stati fallimentari. Tutto si sgretola: gli sguardi fra Delia il suo vicino di casa crescono di intensità, di calore.
 Una reazione a catena di cui finalmente si può vedere la scintilla primordiale: non dalla sofferenza il papà di Giovanna tentava di proteggerla, bensì dalla sua stessa madre. La normale concezione del rapporto madre figlia viene a crollare: non una competizione della figlia nei confronti della madre, non un rapporto conflittuale. Bensì il nulla. Come una donna privata dell’utero, Delia rimuove la figlia dalla sua vita, considerandola solo “sua figlia”, ovvero figlia del padre. Mai un volta la nomina, mai una volta ne parla riferendosi a lei come “nostra figlia” o “mia figlia”. Da chi era davvero necessario proteggere Giovanna? E chi era davvero necessario proteggere: Delia o Giovanna?
 Esplicitando i livelli profondi della narrazione, si dispiega una figura paterna surrogata di una madre spogliata dal suo istinto materno, che lo tollera a malapena, e che rifugge la costruzione di un vero rapporto con la figlia poiché in essa vede la sua negazione di essere donna.
 Negli anni della seconda Guerra Mondiale, l’Italia è anche questa: la vita è anche questa. I sentimenti non si lasciano fermare dalle bombe, dalle morti improvvise, dagli ospedali psichiatrici. Con morboso realismo il papà di Giovanna rinuncia alla sua vita per tentare di garantirne una alla sua bambina, creando un legame claustrofobico ed esclusivo: la sottile linea che separa il bene dall’ossessione svanisce all’ombra delle insane espressioni che compaiono sul volto della eccellente Alba Rohrwacher.
 Avati avrebbe facilmente potuto spingere il pubblico alle lacrime, iniettando buone dosi di pathos fra una scena e l’altra: non si è fatto tentare da questa facile risoluzione, lasciando allo spettatore la libertà di arrabbiarsi, di commuoversi e anche di inquietarsi di fronte a una pellicola del genere.
 Non sarebbe stata poi una scelta del tutto gratuita quella di portare la platea a un facile turbamento emotivo, mostrando più nel dettaglio l’ospedale psichiatrico in cui viene internata la protagonista del film. Diversa è stata però la politica di Avati, che ha preferito invece portare il suo spettatore a un diverso tipo di riflessione. Giovanna chiede al padre di suggerire alla madre di indossare i suoi guanti neri, se mai un giorno andrà a trovarla in ospedale. Conscio del fatto che la moglie aveva ormai rimosso la povera figlia pazza, Silvio Orlando decide di portare direttamente a lei i guanti della madre. La ragazza possiede quindi come oggetto feticcio della madre proprio un qualcosa che le permette di isolarsi dalla realtà. Le sue mani e la sua pelle sono protette dai guanti neri della sua bellissima madre, così come i discorsi del padre volevano proteggere la sua anima dalle sofferenze del mondo. Il guanto come una maschera che la protegge dal mondo ma che allo stesso tempo risulta l’unico tramite utile per la sua vera scoperta. Una maschera, un prolungamento del corpo, un oggetto feticcio della madre: un segno che svela finalmente il vero disagio della ragazza. Per quanti fino a quel punto avevano colpevolizzato il padre per i disturbi mentali della giovane, la realtà si dispiega in un inaspettata colpevolezza dell’assente madre di Giovanna. Semplicemente inquietante.

 
01:09:2008

il papà di giovanna
Regia: Pupi Avati
Italia 2008, 104'
DUI: 12 settembre 2008
Drammatico