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OVSYANKI di Aleksei Fedorchenko con Igor Sergeyev, Yuriy Tsurilo Altri interpreti: Yuliya Aug, Victor Sukhorukov |
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30/30
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È una novella, non c’è dubbio. Anche perché, del racconto breve "Gli Zigoli" di Aist Sergeyev, Fedorchenko coglie perfettamente innanzitutto la dimensione “a-narrativa”. Più che “raccontare”, Fedorchenko si fissa sugli zigoli. Sono uccelli simili a canarini diffusi in Russia, e soprattutto nella regione di Merya, popolata da genti di radici più ugro-finniche che slave. Gli zigoli, comprati d’impulso al mercato dal protagonista, sono una sorta di epitome per quel “non-so-che” di “colore locale” che incarna l’identità Merya. Un insieme di peculiarità che stanno rapidamente sparendo. Non a caso, il film intero è un’assorta elaborazione del lutto. Miron, titolare di una fabbrica di carta, chiede al protagonista (suo migliore amico Aist) di accompagnarlo nel viaggio che li porterà a disperdere le ceneri della moglie appena morta nelle acque del luogo che vide il loro viaggio di nozze. Pian piano, emerge che Aist non era esattamente estraneo alla donna deceduta: al contrario, pare addirittura che si sia consumato un adulterio tra i due. A colpire è innanzitutto il modo in cui il film tratta deliberatamente sottogamba, quasi con disprezzo, la storia “di letto” che si infiltra tra i due uomini (poco prima della fine, Miron si accorge di un video dei due registrato sul cellulare, ma la cosa finisce lì). Letteralmente: che Aist abbia messo le corna al miglior amico Miron non ha la minima importanza. Importa invece il legame cupo, solenne, serafico che si instaura tra i due uomini, legati da una medesima assenza. I due non si dicono quasi niente (semmai, Miron indulge nel rituale Merya di sbrodolare monologhi sulla persona amata dopo la sua morte), ma quello che interessa Fedorchenko è la loro silenziosa, compassata, virile compresenza al cospetto di ciò che li unisce. Per questo l’inquadratura certamente prevalente è quella che, dal seggiolino posteriore, ritrae di spalle i due uomini taciturni seduti in macchina, ingabbiati in qualcosa di più grande di loro non meno degli zigoli che stanno tra loro due sul bracciolo centrale dell’abitacolo. Ciò che preme a Fedorchenko è insomma sottolineare ad ogni momento la situazione, intesa come l’insieme di coordinate di massima entro cui un fenomeno trova estrinsecazione. E questo palesemente a discapito della storia. Quest’ultima, di fatto, è interamente appannaggio della voce over, la quale inonda di parole il film dall’inizio alla fine. Alle immagini non spetta che di fissarsi su quegli elementi marginali che, con la loro potenza immediata, sembrano inghiottire tutta la vicenda. Ci pensa la voce a far andare avanti la storia: la macchina da presa può concentrarsi, anche arrestando per minuti il flusso narrativo, su una macchina da scrivere gettata da un poeta nelle acque ghiacciate, sui nastrini ritualmente attaccati dalla gente del posto ai rami degli alberi, su uno sguardo malandrino tra Aist e la moglie dell’amico durante il matrimonio, sullo scorrere di una barca/catafalco sulle acque di un fiume… su Miron e Aist che, controluce, ripuliscono il cadavere della donna (costantemente al centro dell’inquadratura, anch’esso controluce) e lo preparano all’ultimo viaggio con cura impassibile e meticolosa. Al tempo è riservata un’incuria sprezzante – e dunque anche alla morte: i due uomini alla fine fanno un incidente mortale, ma alla cosa è attribuita meno importanza che all’acquisto di un braccialetto scassato in una tabaccheria. A Fedorchenko, piuttosto, interessa quello che persiste. A fronte del suo annodare insieme la morte della moglie di Miron nel presente, la morte della madre di Aist nel passato, e l’imminente scomparsa dei Merya (nonché, ancor più traumaticamente, la vita che continua nonostante tutto: Miron e Aist gironzolano in un centro commerciale, vanno con due prostitute…), tutto questo perdersi nel tempo (e nell’acqua, ovvio e potente archetipo materno e dell’eterno scorrere temporale) non è che la condizione per cui qualcosa si impiglia e rimane. La “situazione” è questa rimanenza statica, pensosa, enigmatica su cui di volta la macchina da presa si attarda fissandola. Sono gli zigoli, simbolo vivido e concreto di ciò che accomuna tutto un popolo, sopravvivenza curiosa di un’autenticità che non smette mai di morire.
11:09:2010 |
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