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OČA di Vlado Škafarngari con Miki Roš, Sandi Šalamon |
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30/30
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Una prima, lunghissima parte: “domenica”. E un’altra, breve ma lancinante: “lunedì”. Prima, l’idillio tra un padre (con un bel maglione rosso) e un figlio: essendo i genitori separati, non si vedono quasi mai, ma quando si vedono il tempo sembra fermarsi e sembra farsi strada l’incanto perpetuo dell’infanzia. Poi, dopo che già nel fine settimana alla radio erano passate voci insistenti su scontri davanti alle fabbriche, arriva il lunedì e la dura realtà dello sfruttamento, colto sui volti in primo piano di operai (in sciopero) che la macchina da presa visibilmente non smette, per questo, di amare rivelandone la bellezza nascosta sotto le rughe e le piaghe da lavoro. Il medesimo padre del giorno prima, ora vestito da lavoro in pausa pranzo (e che confessa le sue difficoltà economiche), dice a dei compagni che è il suo mestiere (di sorvegliante) che gli fa vedere il peggio delle persone, a lui che invece sarebbe portato naturalmente a vedere in loro il meglio… Grandissimo cineasta assolutamente da scoprire, Vlado Škafar immerge gran parte del film (quella “domenicale”) nella natura, e in inquadrature di limpido nitore, cristalline, ariose, di compostezza “sdraiata” (non mancano le vedute dall’alto), tenerissima, pronta ad abbandonare tutto per seguire i monologhi dolcemente sconclusionati del bambino. Tutto sembra fluttuare in una pace e in una quiete perfette, agevolate dal fluire delle dissolvenze incrociate che legano tra loro le inquadrature in un medesimo tessuto liscio come un ruscello trasparente. Le discontinuità (socio-economiche), però, ci sono, sono laceranti, si fanno sentire eccome, e Škafar non si tira indietro, ce le sbatte in faccia senza battere ciglio. Perché vanno viste tutte e due le facce della medaglia. La pace domenicale e la guerra feriale. La sospensione paradisiaca del tempo e la lotta sindacale. La continuità e la frattura. Non c’è l’una senza l’altra. È facile fare un film che inneggia alla lotta: più difficile fare vedere insieme la necessità della lotta e le ragioni per cui si lotta: semplicemente (come se fosse semplice metterlo sullo schermo: è invece la cosa più difficile del mondo), l’amore per gli esseri viventi. Puntare così in alto, e riuscire ad evitare le cadute stucchevoli, ha davvero del miracoloso. Škafar non solo riesce a trasfigurare i corpi e gli elementi davanti alla macchina da presa in pura luce, in figure inondate da una serenità accecante, ma riesce anche a non nascondere il dolore sotteso a quella (e a ogni) trasparenza.
11:09:2010 |
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