
Mike Figgis (Leaving Las Vegas, 1995;
Hotel, 2001 ) passa attraverso i
generi e i formati con la sospetta sicurezza del filmmaker-artigiano, ma
raramente lascia tracce del proprio passaggio.
Incuriosito da tutto cio’ che esula dal canonico prodotto commerciale – si
vedano a proposito la recente partecipazione al progetto RED, HOT AND BLUES,
insieme a Scorsese e Wenders fra gli altri, cui contribuisce in qualita’ di
ex-musicista ( nella formazione pre-esordi discografici dei Roxy Music
affiancava nientemeno che Eno e Bryan Ferry !!!), o l’ irritante
attraversamento dei cascami del Dogma danese in HOTEL – il regista inglese
non esita peraltro ad accettare ogni proposta di lavoro degli Studios
hollywoodiani, con la malcelata scusa di rinvigorire presunte finanze
dissestate.
Dopo VIA DA LAS VEGAS, Figgis si produce in un salto triplo che lo conduce
direttamente nei territori del thriller psicotico con venature horror. COLD
CREEK MANOR dovrebbe,o potrebbe, mettere in atto uno scandaglio approfondito
della contrapposizione tra alienazione urbana in contesto familiare
attraversato da crisi coniugale e analogo disadattamento in situazione
extraurbana, con il tradizionale corredo di terror panico verso una Natura
refrattaria a ogni tipo di conquista.
La villa di campagna dove la famiglia di un documentarista squattrinato si
trasferisce per sfuggire al ritmo insostenibile di una New York resa ancor
più nevrotica dall’ attacco alle Twin Towers, è in realtà, e non solo in
senso figurato, il pozzo senza fondo di paure inconfessate ( il tradimento,
la perdita, ), rese ancor più profonde dall’ intervento del prevedibile
elemento esterno: il terzo incomodo, pronto a far leva sulla crisi della
coppia, pur di riappropriarsi di quel Luogo – come lui selvaggio e ostile –
di cui rappresenta, in maniera del tutto esplicita, il doppio.
Stephen Dorff, galeotto violento a metà tra Max Cady e Bubba Sawyer “Leatherface”,
ha anch’ egli qualcosa da far pagare all’ antagonista Dennis Quaid: aver
comprato a poche lire la casa di famiglia, messa all’ asta durante la sua
prigionia.
Ma Quaid è un antieroe assoluto, e il suo mondo va sfaldandosi appena viene
a contatto con “l’ alterità” del luogo, in forma di contesto fisico e umano.
Il problema è che, come si diceva, il prologo cittadino è troppo breve
perché s’ inneschi un qualche ragionamento sulla psicologia di personaggi
dall’ affettività anestetizzata e l’ immediata dislocazione di questi in
altri territori fisici e mentali, risulta quantomeno affrettata o,peggio,
giustificata dal mero innesco del meccanismo narrativo.
Il tradimento virtuale da parte della moglie ( Sharon Stone ), andava
giocato sul piano del raffronto tra la tentazione rappresentata dal collega
di lavoro – civilizzato e valutabile in base al proprio conto in banca - che
propone una notte di sesso da monetizzare con salti di carriera; e quella,
antitetica, dell’ ex-detenuto - il selvaggio tutto fisico e lavoro manuale –
ridottosi a elemosinare un lavoro qualunque all’ usurpatore borghese venuto
dalla vicina metropoli.
( A questo proposito: dovremmo trovarci nel New Jersey, ma in realtà siamo
in Canada. Pur di non rischiare attentati sul territorio statunitense, le
location sono state scelte altrove e alcune scene estive - tutto il prologo
- sono state girate in condizioni di gelo invernale… ).
Per non dire, poi, di ciò che il film avrebbe potuto essere in termini di
antitesi visiva tra il decor levigato di un appartamento sulla Fifth Avenue
e la contorta struttura spaziale della old mansion nel bosco.
La pellicola è,invece, tutta costruita sull’ insinuarsi progressivo dell’
elemento esogeno all’ interno del nucleo familiare, processo corredato da
una deprimente simbologia: Dale Massie/ Stephen Dorff si fa strada
riempiendo la casa e la piscina di serpenti di ogni specie, inducendo la
coppia a ragionare così: “Il problema è che non sai mai come comportarti
quando ne incontri uno, perché non riconosci immediatamente quello innocuo
da quello letale…”. Di pari passo va fallendo il tentativo d’ integrazione
di Tilson/ Quaid e consorte nei confronti del villaggio vicino e le premesse
per un affastellarsi progressivo di scene madri sono già tutte in atto.
Ciò che disturba maggiormente, peraltro, è il tentativo di anteporre, o
giustapporre, a quello principale, un piano narrativo parallelo, che segue
Tilson/ Quaid nella realizzazione di un documentario sulla villa carica di
misteri: dove sono finiti i bambini che sorridono dalle foto trovate all’
interno della casa? erano i figli di Massie? chi ha scritto la demoniaca
filastrocca canticchiata dal figlio del protagonista - il più contagiato
dalla presunta maledizione del luogo e meritevole di maggiore sviluppo - ?
Non è il fatto in sé di raddoppiare la linea del racconto, quanto di filmare
il tutto con camera a mano e di farci credere che ciò possa: 1) dirci
qualcosa d’interessante sull’ attività di un filmaker indipendente; 2)
indurre il sospetto che il film “vero”, quello voluto dal regista Mike
Figgis che-non-si-vende-al-sistema-ma-anzi-lo-scardina-dall’interno, sia
questa collezione d’ immagini gratuite, alcune addirittura filmate da Dennis
Quaid in persona,un po’ HOTEL, un po’ BLAIR WITCH PROJECT.
Possibile che una mente evoluta possa pensare di doversi ricavare nicchie di
regia à la page, vagamente e falsamente riconducibili ai dettami dell’ ormai
decomposto Dogme ’95, proprio all’ interno di un prodotto ultracommerciale?
Un filmetto-nel-filmetto che nessuno rischia di notare come fatto a se
stante?
Se poi traslochiamo nel retrobottega del dvd di questo film, ci colpisce la
maledizione del regista in vena di confessioni: il surplus di notazioni
sulla tecnologia usata dal protagonista – ultramonitor della Apple, schermi
per il controllo delle slides, videocamere piccole e piccolissime – sarebbe
un atto dovuto di fedeltà e di doverosa registrazione del modo di lavorare,
semplice ma complesso, moderno ma antico, di un artigiano del cinema “come
non ce ne sono più da tempo”…
Salvo poi ammettere che le riprese attribuite a Quaid, visto nel film
maneggiare una microcamera, sono state in realtà effettuate con un betacam
professionale.
Insomma, un mélange di stereotipi di genere e di goffe deviazioni verso
territori altri, concluso dall’ affrettato tratteggio del lato malvagio del
villain interpretato da Dorff, tutto traumi infantili ( capre come gli
agnelli di SILENCE OF THE LAMBS ) e disfunzioni sessuali.
Voto: 19/30
30.01.2004
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