
OCEAN'S TWELVE (E ALTRO DI NOI ALTRI)
PREMESSA: la "necessità" di parlare male dei film italiani e stranieri.
GIUDIZI IMPROBABILI
Prima o poi qualcuno dovrà far chiarezza su due interrogativi che, a
intervalli regolari, tornano ad assillare chi scrive (e non solo): 1- come
possono, i critici di una stessa rivista, assegnare voti e distribuire
giudizi tra loro antitetici, quando la loro linea editoriale - parliamo
infatti di stampa "cartacea" di vaglia - è abbastanza chiaramente segnata;
in particolar modo se il film in questione è da tempo considerato un "caso"
per le aspettative andate deluse, o il regista è di quelli guardati a vista,
e con sospetto, da una schiera di giornalisti che s'interroga da tempo sugli
alti e bassi della sua produzione; 2- quando verrà il giorno che uno di loro
si deciderà a ridimensionare la portata dell'"opera" di Steve(n) Soderbergh?
Non ci sarebbe nulla d'inquietante in tutto ciò, se non che, ripetendosi
casi del primo tipo con una certa (questa sì inquietante !) frequenza, è
possibile che altri siano portati a pensare a malafede o, nel migliore dei
casi, ad abbagli assai preoccupanti.
Nell'ultimo periodo, citando a memoria titoli sparsi e provenienti da autori
lontanissimi fra loro, basterà ricordare i casi di CATERINA VA IN CITTA', LE
CHIAVI DI CASA, L'UOMO SENZA SONNO (THE MACHINIST) e OCEAN'S TWELVE.
In breve: le pellicole in questione hanno attirato, per diversissimi motivi,
l'attenzione della stampa, la quale, peraltro, non ha potuto fare a meno di
sottolineare - in tutte le circostanze - una sostanziale "distanza" in
termini di qualità tra questi e i precedenti lavori degli stessi registi o,
vedi THE MACHINIST, l'"incompiutezza" di un lavoro in alcuni spunti
promettente, ma riconducibile agli "stilemi" di un cinema programmaticamente
disturbante, più per l'alta fattura del design orrorifico delle immagini -
SEVEN docebat - che per l'originalità del'assunto.
E' chiaro che, a priori, si può sostenere tutto e il contrario di tutto, ma
è incontestabile che, per gli altri titoli, sia lecito avere più di un
sospetto perlomeno sulla non sanissima "contiguità" tra stampa e registi,
spesso legati da amicizia-stima-comune militanza, che finisce
inevitabilmente col generare stupore e piccole delusioni tra varie schiere
di lettori.
I film di Virzì e Amelio (in maniera più eclatante il secondo), insieme a
meno recenti "opere" di Moretti (LA STANZA DEL FIGLIO) e Benigni (LA VITA E'
BELLA), vengono o sono stati incensati oltre ogni possibile limite definito
dalla personale benevolenza dei critici, al punto che, dai precedenti
ragionamenti sulla "vicinanza" tra analizzanti e analizzati, per così dire,
si passa a considerazioni diverse. Del tipo: è lecito esaltare la tal opera
a priori, solo perché il "trend" positivo al botteghino la fa diventare
trainante rispetto all'intero sistema produttivo nostrano (già nel 1996, a
Pesaro, si parlava dei film di Verdone come di un indispensabile
"locomotiva" per i lavori di tutti gli altri colleghi dell'attore
romano...), o non sarebbe meglio spendere convegni sulla necessità di uscire
da un fatalismo e da un'inerzia autolesionistici, puntando decisamente verso
il rafforzamento delle varie Film Commission e relativo decentramento?
I quattro film citati sono, in vario modo, brutti, iperprogettati a tavolino
(di trattoria romana o toscana), ripetitivi, stanchi, poeticamente "afasici"
o delicatamente sterili.
Ma chi ve lo verrà mai a raccontare?
Per fortuna LE CHIAVI DI CASA è stato un disastro in termini d'incassi ed
esce già in dvd - a tutti gli effetti il refugium peccatorum di molti,
insieme al sanatorium di Sky - ma esce anche sulle copertine di importanti
pubblicazioni, presentato come il capolavoro (?) del Maestro italiano e
viene sottoposto ad approfondimenti imbarazzanti, che vedono mirabilie in
uno spazio (filmico) vuoto o assente.
Non è un caso che chi ha pensato e orientato l'ultima Mostra del Cinema, lo
abbia ignorato al momento di assegnare i premi.
Stesso discorso vale per gli altri (vedasi: UN CINEMA AD HANDICAP, su
Kinematrix.net), incluso l'ultimo Virzì, che è notoriamente un simpaticone,
ogni tanto azzecca operine in stile commedia sociale aggiornata, tra nuove
realtà giovanili e reiterate problematiche lavorative, e oggettivamente
dispiace parlarne male. Benigni è imbattibile per capacità comunicativa, ma
più parla lui e meno "comunicano" i suoi film. Moretti...beh, a costo di
ritrovarci un moncherino che tenta di digitare sulla tastiera del portatile,
diremo che è cotto da un pezzo, che LA STANZA DEL FIGLIO, fatto da altri,
sarebbe passato come qualcosa di algidamente e impoeticamente inutile, sorta
di reality-tv (l'estetica è quella, inutile sostenere il contrario)
ricattatoria e rastrella-premi: ma il Vate è come Javeh, sfugge alle
definizioni e a chi tenta di immortalarlo anche solo "fotograficamente", per
cui rimane alto nei cieli dell'irrappresentabilità e quindi criticabilità,
nonché della "calcolabilità" anagrafica...
E invece è il momento di abbattere i castelli che anche M. decostruiva 30
anni fa (adesso è nella posizione in cui poneva Monicelli e Sordi) e parlar
male di costoro, ma anche, in piccolo, di gente come Archibugi e, in grande,
di Michelangelo Antonioni, può realmente servire a uscire dalle
insopportabili sabbie mobili in cui masochisticamente vuole rimanere il
cinema de noantri.
CREARE DIS-EQUILIBRIUM
Ed ecco che, via Antonioni, arriviamo in breve a Soderbergh.
Il link ce lo offre quel capolavoro di EROS (beh, anche Fandango può
sbagliare...), pasticciaccio brutto e insensato che, ritiratosi Almodovar,
sarebbe stato meglio archiviare, viste anche le note difficoltà del regista
ferrarese.
Al favoloso Wong Kar Wai e all'impalpabile maestro transeunte - ben
sostenuto dai deliri del vecchietto ottimista della Valmarecchia, un tempo
conosciuto come Tonino Guerra (tirate fuori un suo dialogo decente da vent'anni
a questa parte, oppure, se non ci riuscite dopo esservi torturati con
VIAGGIO D'AMORE, IL FRULLO DEL PASSERO, BURRO, AL DI LA' DELLE NUVOLE,
andate a leggere la splendida definizione che ci regala Pier Maria Bocchi
del "poeta" dei frutti dimenticati, degli orti dimenticati, del talento
scomparso...) - qualcuno ha pensato bene di associare in maniera posticcia
il prezzemolo "chic" rappresentato dall'infaticabile regista di SEX-LIES AND
VIDEOTAPES.
Chiosiamo la "premessa" ribadendo la necessità, l'obbligo sano e utile di
abbattere i "maestri", che abbiano più di 50 anni, come Moretti, o più di
90, come l'autore de LA NOTTE, a costo di "sparare sulla croce rossa", come
ribadisce l'ineffabile Bocchi.
MICROENCICLOPEDIA
Tornati al punto "1", e compreso come si possa parlar bene di brutti film
italiani, ci sfugge il perché e il per come ciò possa accadere nel caso di
pellicole teoricamente meno protette (quelle straniere).
Fa un certo effetto sentir parlare di THE MACHINIST e OCEAN'S TWELVE come di
capolavori dei nostri giorni, exempla non transeunti di cinema
neo-polanskiano (???) e soffocante, il primo, e di testi degni di
scomodamenti semiologico-ermeneutici, che neanche Godard, il secondo.
Francamente ci sfugge come sia possibile parlare di "microenciclopedia
cognitiva" o di "film-ologramma" che "verrà analizzato e studiato in un
saggio ponderoso e documentato sull'immaginario cinematografico (...) messo
in atto dai sequel" per un filmetto assai transeunte (tra anziani cineasti,
sceneggiatori alla frutta e materiali transeunti, si respira un'aria
asfitticamente malata e da morgue: urge svecchiare e tagliare i rami secchi
senza pietà).
Soderbergh è già vecchio, corrotto dal meccanismo hollywoodiano che fagocita
ribelli e alternativi, rivomitandoli dopo averli ben digeriti e istruiti sul
da farsi: correggere in corsa carriere potenzialmente eretiche e piegarle al
più bieco eclettismo macina-pellicole, al ritmo di un paio all'anno.
Nessuno sano di mente può andare oltre un generico apprezzamento del
"mestiere" e di qualche trovata visivamente o "graficamente" originale (più
in TRAFFIC che in OCEAN'S TWELVE, ovviamente), trattando dell'occhialuto
regista americano.
EQUILIBRIUM (in EROS), il remake di SOLARIS (?), OCEAN'S ELEVEN, TRAFFIC,
FULL FRONTAL, OCEAN'S TWELVE...: 6 o più film in 4-5 anni li possono girare
Johnny To o Takashi Miike, cioè gente "bruciata" dal talento e dalla
grandissima vena creativa, ma hanno il difetto di non essere americani.
Quindi: a fronte di pochi succosi passaggi festivalieri di questi ultimi,
ecco le 700, 1000 o più sale riservate a OCEAN'S TWELVE.
Ecco le cinque stellette o i pollici-sù incomprensibili, ma anche le
ritirate strategiche di altri critici saggiamente stitici in sede di
commento, che decidono di prendersi la libertà di un bel 3 o 4 assegnati a
cotesto filmetto.
Forse è presto per dire che gli scenari cambieranno, ma a costo di una
rivolta di certa critica internettiana e del sostegno fornito all'operato
dei Marco Muller, degli Steve della Casa, degli Alberto Barbera, dei Marco
Bechis-produttore o dei Mario Sesti, arriveremo non tardissimo all'alba di
un "nuovo giorno", in cui alle bicchierate romane e ai tramezzini delle
anteprime di siffatte pellicole (inturgidite dalla sgradevole presenza delle
mascelle di un qualunque Pitt-Brad e dalla faccia-facciosa pre-bolsa
dell'ormai spento Clooney), sostituiremo piacevolissimi party con gli occhi
a mandorla, molto silenzio e tanta qualità.
OCEAN'S TWELVE
Il film di cui dovevamo parlare segue stancamente il precedente OCEAN'S
ELEVEN (letteralmente: "gli undici di Ocean", cioè il capobanda), che si
reggeva in piedi in quanto remake decente e sufficientemente ritmato di un
caper movie americano.
Il misero intreccio, ora che Soderbergh è costretto a reinventarsi struttura
e personaggi, si arrampica per tortuosi ed inconcludenti percorsi narrativi,
pescando chissà dove e perché il Ladro dei Ladri, l'europeo Cassel (e così è
sistemato il pretesto di location parigine, e poi olandesi e poi romane e
poi comasche, cioè una mega vacanza a spese della produzione), intromessosi
nella disputa tra Benedict e Danny Ocean, dopo il furto del primo episodio.
Il film non va da nessuna parte, pur muovendosi per il globo intero, e
trasmette la spiacevole sensazione di una compagnia di teatro che si
scioglie alla fine della tournée invernale, con la sola voglia di sole
(Roma) e vacanza (dai vincoli di una "storia").
C'è una vaga aria di digitale alla FULL FRONTAL, di posizionamenti "casuali"
della m.d.p., d'illuminazione troppo spesso naturale.
I personaggi perdono spina dorsale e piglio del primo film, dove i legami
intrecciati tra loro giustificavano battute e gag e si aprivano alla chiara
lettura, da parte dello spettatore, di ciò che accadeva.
Qui sono maschere svuotate, per nulla ironiche, con lo sguardo perso nel
vuoto, letteralmente rivolto verso il "convitato di pietra" (Soderbergh),
assente o incapace di dare indicazioni di sorta.
Anzi, lungi dall'essere un film che ragiona sul ruolo dell'attore impegnato
a ripetere se stesso in un sequel, è la deriva della direzione dell'attore e
della capacità di quest'ultimo di autogestirsi in situazioni, per così dire,
di emergenza. A dire: i grandissimi istrioni (Pacino) sanno tenere su
pellicole dove il capobanda-regista latita, mentre i vari Pitt, Clooney,
Roberts, Zeta-jones - peraltro incredibilmente e imprevedibilmente bella e
magra - non sanno dove stia di casa l'improvvisazione.
Lo spunto (restituzione del maltolto ad Andy Garcia-Benedict, grazie ad un
nuovo colpo galattico) viene subito tradito a favore dell'irritante Cassel,
che sfida la banda a colpi di abilità improbabili, come fare capoeira-break
dance tra i laser di un museo, per il gusto di dimostrarsi il migliore.
Non è certo questo il contesto che possa produrre chissà quali scavi
psicologici, ma anche l'entertainment latita e ci si annoia e ci si irrita
non poco. Soderbergh è maestro nell'arte d'irritare il pubblico attento,
apparendo sempre come l'ex-studente di cinema saccente ma nerdissimo,
l'alunno copione privo di personalità che usa la storia del cinema come il
compito del compagno intelligente, convinto che la mimesi piatta delle idee
altrui produca analoghi capolavori. SODERBERGH VA SMASCHERATO, dopo "perle"
come FULL FRONTAL, OUT OF SIGHT, SOLARIS e quest'ultimo film.
Aspettiamoci pure da parte sua, nel prossimo futuro, remake di film di Sirk
o Murnau, commedie brillanti e fanta-horror, dogma posticcissimi e, magari,
L'INFERNALE QUINLAN fatto a pezzettini, con gioia maxima degli Studios, per
i quali S.S. rappresenta il prototipo perfetto di regista-stallone, che
sforna film anche tre volte all'anno senza rifiutare alcunché e gira alla
velocità della luce.
Voto: 14/30
20:01:2005 |