
In un posto del sud, d’estate. Michele, dieci anni, passa la vita tra la
monotonia del piccolissimo paese d'origine e le eccitanti fughe tra i campi
di grano insieme ai pochi coetanei. Durante una di queste scopre per caso un
buco nel terreno coperto da una lastra di lamiera. Un incredibile segreto
cambierà per sempre la sua vita, segnando la fine dell’infanzia e la
conquista di un nuovo coraggio.Che Salvatores riesca a mettersi comunque in
gioco non è più una novità. Attraverso Denti (tra le più recenti, la sua
prova più sorprendente, interessante, quanto irrimediabilmente irrisolta) e
Amnesia (che forse troppo risente di certe tendenze modaiole e
postmoderniste alla Tarantino) aveva tentato, peraltro riuscendoci, ad
azzardare linguaggi e stili inconsueti, perlomeno, nel cinema italiano. Con
quest’ultimo film il regista torna ad una narrazione più lineare, tenendo
saldamente la mdp sul cavalletto e a farla elegantemente scivolare su un
carrello. Ma la voglia di contaminare e affascinare resta la stessa. Anzi,
forse si avvicina più di altre volte alla maturità. E per farlo,
paradossalmente, si affida ai bambini. Il mondo che questi fanciulli vivono
è fatto di adulti ambigui, sorta di orchi famelici e antropomorfi che
occupano arrogantemente letti e bagni, padri avidi ma a volte anche
vulnerabili e sfortunati che sembrano abitare una fiaba acida e spietata. E
così la vicenda si tinge di nero (del buco, dell’ombra, del lato oscuro che
ognuno nasconde) e oro (del grano, del sole, della luce), colori dominanti
del film che bene vengono riflessi dalla straordinaria fotografia di
Petriccione e dalle scenografie sempre sobrie, curate, funzionali di Basili.
Ma all’accattivante e fascinosa messa in scena, alla regia quasi perfetta
(una volta per tutte: se Muccino è bravissimo a girare, come dicono molti,
Salvatores diventa automaticamente sinonimo di Orson Welles), agli attori
tutti nelle loro parti come quasi mai accade nel cinema italiano, qualcosa
inevitabilmente, a fine visione, stride. Stride ciò che di solito stride nei
film di Salvatores, e cioè la profondità della vicenda. Su cosa vuole
concentrare l’attenzione il regista? Sull’opposta e complementare natura dei
due bambini (il bianco e il nero di conradiana memoria)? O su come un
bambino vive la crescita, per quanto particolare? O, ancora, getta l’occhio
alle realtà sociali di un sud dimenticato e tragico che coinvolge
inevitabilmente una famiglia? Al regista forse tutto ciò stava a cuore e,
come spesso accade, sfugge. Si ha la sensazione che l’affresco rimanga non
finito, che il colore sulla tavolozza sia terminato prima del tempo. Che i
personaggi siano rimasti lì, imprigionati nella pellicola con ancora molta
voglia di raccontarsi. Ma i pregi e i difetti del film si rincorrono, si
esaltano e si annullano a vicenda. Le immagini rimbalzano nella memoria più
volte e fanno pensare a altre immagini e a altri film. Uno su tutti: Non si
sevizia un paperino di Lucio Fulci, che da geniaccio quale era, ambientò
trent’anni prima di Salvatores un thriller nell’assolata e luccicante
campagna lucana, con bambini inquietanti almeno quanto gli adulti e con un
cielo talmente azzurro che soltanto il buio della terra (e dell’animo umano)
poteva fronteggiare. Io non ho paura non è un film cattivo (nessuno di
quelli da lui girati lo è, ad eccezione forse di Denti), e alla cinica
morale fulciana risponde con la sognante maturità della saggezza. Salvatores
rimane comunque colui che non si fa stritolare dal forzato naturalismo
provinciale che attanaglia il cinema italiano e rivendica (seppur con
modesta forza polemica) una personale poetica della regia.
Link: http://www.iononhopaura.it
Voto: 28/30 |
IO NON HO PAURA è uno splendido film di uno
splendido regista!
Che –coerenza vuole- definiamo tale anche perché finalmente non è
popolato da Ugo Conti o Sergio Rubini e dove gli Abatantuono e i Catania
volano basso, nascosti, sottotraccia. La bellissima storia di solidarietà
infantile imbastita da Ammanniti sulla scorta, lui più giovane, di ricordi
adolescenziali di fine anni ’70, ancora impregnati di acre sapore di
rapimenti e telegiornali come mezzo per la diffusione di comunicati di
questa o quella associazione politica o a delinquere, regge da sola le
quasi due ore della pellicola, appoggiandola sul doppio abbandono e
isolamento vissuto dai protagonisti, entrambi lontani o allontanati dal
cuore della famiglia, meglio, dalla figura del padre, che si annusano, si
ritraggono, si riavvicinano in quel buco di terra, che è anche metafora
dello scavo, della eccitazione per la scoperta di qualcosa di diverso, di
proprio e privato e di non condivisibile con la famiglia che tutto
controlla.
Il ragazzino protagonista non familiarizza troppo con i coetanei, vive di
distese di grano potentino, di libertà di corse in bicicletta attraverso
quella luce irrappresentabile del Sud e soprattutto è attratto da quel
doppio, voyeuristico modo di crescere attraverso la visione di qualcosa
che gli è ignoto e oscuro – la stanza dove confabulano i genitori
co-rapitori e, ovviamente, il nascondiglio del bimbo rapito- verso i quali
si muove come verso la desiderata/ temuta conoscenza di qualcosa che lo
renderà meno puro.
Non sa, non capisce la realtà, galleggia, come si diceva, sulla bolla di
sapone che ancora si frappone fra lui e le cose vere, ma è felice, un
esserino di dieci anni in procinto di “conoscere” e di compiere, suo
malgrado, un percorso tragico, analogo e inverso, a quello che ha
bruscamente portato il suo doppio milanese di ricca famiglia a vivere la
vera vita talmente in fondo, non solo metaforicamente, da credersi morto e
come tale, piccolo allucinato e terrificante zombi sporco di terra e
cieco, comportarsi.
Un film privo di qualunque eccesso, ma allo stesso tempo capace di
mescolare i “generi” come nessuno da noi osa fare: non c’è nessuna
volgarità di serie “b” nell’usare registri orrorifici quando deve essere
rappresentato lo stato in cui versa il piccolo rapito, che è una mummietta
segreta, scura, nascosta sotto un panno scuro, capace di mangiare e bere
senza mostrare il viso, come un gremlin o un baby-killer in fase di
autodifesa. E, in quest’ottica, è geniale la rivelazione del corpicino
bianco, della bocca terrosa e dei capelli scarmigliati, biondi e lunghi
dello zombi-baby che esce dal sacco e si mostra alla sua antitesi/
alter-ego dalla pelle meridionale e scura, capelli corti e neri. Girata,
la scena, in parte in soggettiva, anche per mostrare le piccole mani
arrossate e ferite, ha tutto del film dell’orrore, ma questo ci piace, non
ci spiazza, ed è funzionale al credere fortemente che a volte i termini
definenti i generi, non siano casuali o inaccettabili se associati a un
contesto che “lavora” l’orrore come quotidianità o sopravvivenza, cioè
come materia del narrare, cui quel “modus” rappresentandi, per così dire,
è parente.
Perché l’horror [ se ne parlò anche per DENTI ] deve essere solo gore
sanguinolento , parata di convenzioni stilistico-narrative o legate al
decor […] del caso? Ma non è più interessante –rimanendo tale anche il
cinema di genere tout-court- che pezzettini di questi “generi” o
“sottogeneri” facciano periodica e motivata incursione nel “sopramondo”
dei film considerati di categoria superiore?
DENTI era un film inclassificabile –bene!- proprio perché pieno di
allucinazioni oniriche e di puro horror di sola visione –i denti, ad
esempio- o di storia – l’uomo squartato nella vasca- che confermava quanta
abilità Gabriele possedesse già allora nella benvenuta “confusione” dei
livelli e dei modi della rappresentazione.
Tutto ciò, forse, gli deriva dalla formazione teatrale, che era un
laboratorio infinito di prove e sperimentazioni, e dalla libertà
d’immaginazione che ne era alla base. Pensate –fatti tutti i distinguo che
si vuole, naturalmente- l’analoga libertà, il folle cromatismo,
l’ipertrofia scenografica di un Bene, anche lui proveniente dal teatro,
nelle sue poche prove cinematografiche.
Tornando al film, va detto della solita capacità di Salvatores di gestire
i ritmi del racconto, coadiuvato da un montaggio che rallenta e accelera a
seconda che ci troviamo tra le quattro mura illuminate da luce naturale
dello scarno casolare di famiglia, o che ci si muova all’esterno, o che
siamo vicini alla casa di terra del rapito.Così come Gabriele conferma, e
questa volta con risultati mai sopra le righe, neanche da parte di
Abatantuono, la sua capacità unica nel dirigere gli attori, immergendoli
–forse- oniricamente in tempi e situazioni totalmente altre da quelle
della loro quotidianità. Sembra una tautologia del mestiere di chi recita,
ma non è così, poiché con S. le figure recitanti sono veramente in trance,
staccate dalla pratica del “lavoro” sul set e abbandonantesi ai loro
personaggi-corpi con totale fiducia e convinzione, ipnotizzati dal monaco
zen napoletano-milanese, noto da tempo per saper creare atmosfere uniche
su set che dimenticano la realtà –e il reale?- circostante.
Ma questo non è altro che la materia del cinema!
Certo, poi il film appassiona, coinvolge, fa meditare anche per il suo
legame con fatti legati alla cronaca di qualche decennio fa, ci porta sul
piano del ricordo collettivo, fa “discutere” i capannelli di gente fuori
dalle sale….d’accordo: ma non è necessariamente SOLO questo, il COSA
rispetto al COME, a fare di un film un capolavoro.
Voto: 30/30 |