Howard Spence (Shepard), famoso attore di western stanco degli stravizi
della vita da star, abbandona improvvisamente il set di un film per andare a
trovare l’anziana madre (Saint) nella cittadina dove è cresciuto; qui verrà
a sapere di avere un figlio, nato dalla relazione con la proprietaria di un
bar locale (Lange). Malgrado siano passati quasi trent’anni, Howard proverà
a rimettere insieme i pezzi del suo passato.
Wenders torna alle proprie ossessioni (L’America, il cinema, la dissoluzione
dei rapporti familiari) con uno sguardo più sereno e divertito rispetto al
passato. Ed è proprio questa ironia un po’ disillusa a smussare gli angoli
di una sceneggiatura (scritta dal regista con Shepard) che rischia di
mettere ancora una volta troppa carne al fuoco, ed a lasciare, anche
volutamente, troppi nodi irrisolti nei rapporti fra i personaggi; così come
la bellissima fotografia di Franz Lustig, ispirata ai quadri di Hopper,
riesce ad esprimere un senso di straniamento e di contaminazione
“postmoderna” del paesaggio che il testo affida in modo più didascalico e
stucchevole all’invadenza dei soliti simboli della modernità.
Il film deve i suoi scompensi al fatto che Wenders, come quasi tutti i
registi europei, non riesce a cogliere il cuore profondo dell’America; il
suo fascino, al modo in cui ci si avvicina sino a sfiorarlo.
Ballata sulla perdita di punti di riferimento affidata intelligentemente a
tre capisaldi (tutti generosi) del cinema che fu, a conferma della sua
origine più culturale che artistica.
Voto: 25/30
29:09:2005 |