NOI CREDEVAMO

di Mario Martone

con Luigi Lo Cascio, Valerio Binasco
Altri interpreti: Toni Servillo, Anna Bonaiuto

di Marco GROSOLI

 

30/lode

 

Da più di cinquant’anni, il cinema italiano è gravato da una nube minacciosa: Senso di Luchino Visconti. Questa nube ci dice che raccontare la storia patria significa soprattutto raccontare lo scacco delle singolarità individuali. Film romanzesco quant’altri mai, Senso riannoda storia personale e storia nazionale sbarrando qualsiasi punto di contatto tra i due piani, che rimangono fatalmente distinti. Meglio, melodrammaticamente distinti: film teatrale quant’altri mai, Senso postula che il Teatro è fatto interiore/individuale, quindi ottocentesco/borghese, quindi destinato ad essere spazzato via dalla Storia, la quale (quella con la esse maiuscola) è appunto per definizione alienata rispetto alle sorti dell’individuo.

Questa alienazione, in tutta la nostra Storia patria ha avuto un nome, terribile e pesantissimo: cinismo. La deprimente disillusione per cui quello che uno fa, non serve a niente perché “le cose vanno avanti sempre nello stesso modo”, la Storia segue un corso suo e solo suo. È la condanna, apparentemente sempiterna ed immutabile dell’identità italiana, ammesso che esista una cosa del genere (non ha senso comunque negarsi che gli effetti che questa “cosa” ha, anche a prescindere da che esista o meno, ci sono e si fanno sentire anche troppo).

Per cui, tutte le volte che questa nube minacciosa si squarcia e lascia filtrare insperati bagliori di sole, la cosa non può che farci piacere. Con Noi credevamo succede esattamente questo. È un film che sembra girato in tutto e per tutto contro Senso. Non più, come in Visconti, il teatro che concede terreno al romanzo per meglio chiudere i ponti tra storia e Storia facendo rientrare il Tragico per la finestra, ma al contrario ritrovare il teatro in ogni particella, in ogni rivolo particolarista che il romanzo sembrava disperdere. Non c’è più la realtà rivoluzionaria che irrompe sulla scena teatrale, come in Visconti. Qui c’è il pubblico parigino inviperito dall’audacia di un teatro troppo moderno che cerca di interrompere lo spettacolo, e i rivoluzionari italo-francesi che gridano “Laissez-les jouer!”. All’altro capo del film, le camicie rosse garibaldine sbeffeggiano il malcostume mafioso (sempiterno…) dei neoinsediati Crispi & co. con un improvvisato teatrino intorno al fuoco.

Esattamente come in Teatro di guerra, la resistenza coincide con il fare teatro, con il continuare il lavoro del mito direttamente nel cuore della realtà, piuttosto che “agire dentro la realtà”. “Povera generazione la nostra, per cui la realtà è illusione e l’illusione è realtà”, dice la Belgioioso in esilio a Parigi. Resistenza è persistere in questo ossimoro, anche quando la boa è superata, anche quando l’agognata unificazione è stata raggiunta ma ha prodotto solo un paese straccione e privo di tutto. “Fare teatro” vuol dire fare riemergere la contraddizione originaria, la contraddizione mitica, quella che l’ideologia tenta di occultare: la contraddizione di classe. Angelo Cammarota (una delle tante, semi-inventate, splendide figure marginali a cui Martone concede la ribalta del primissimo piano), di origini contadine ma omicida, da giovane, di un amico contadino reo di aver “tradito” la causa dell’unificazione e (forse) di essere una spia, ma soprattutto di nutrire diffidenza verso il progetto nazionalista perché “è tutta roba da ricchi”, è una struggente incarnazione del rapporto tuttora diabolicamente “inverso” tra spinte progressiste e adesione da parte di coloro ai quali questo progresso maggiormente gioverebbe. Non v’è chi non veda che questo conflitto di fondo tra l’opposizione al potere e la diffidenza secolare e strisciante verso il potere che in ultima analisi fa molto comodo il potere, non ha mai smesso di essere drammaticamente attuale.

Contro la retorica dell’unificazione, è questo nucleo rovente che bisogna riportare alla luce: solo così appare chiaro (come appare chiaro al protagonista Domenico, e come ai teatranti in partenza per Sarajevo di Teatro di guerra prima di lui), che la lotta è infinita e l’obiettivo mai raggiunto, prima e dopo il 1961, e nonostante il cinismo di chi ha creduto negli ideali per trovarsi vecchio con un pugno di mosche (tutti i personaggi, variamente). L’uso stesso, magistrale del paesaggio italiano in queste film è una testimonianza via e pulsante che il teatro non finisce mai, che il territorio è solo un’altra scena che, molto oltre le banalità della “messa in scena”, ospita mille rivoli (romanzeschi) che si incrociano scontrandosi e interagendo senza risoluzione facilmente “drammatica”, ma esaurendosi nel sordo pragmatismo del loro sgomitare per uno stesso spazio.

E qualche critico ingenuo l’ha pure chiamata “televisione”… Piuttosto, verrebbe da accomunare questo incrocio di traiettorie incomponibili che è Noi credevamo all’arringa che, senza troppa convinzione, si ritaglia per sé in tribunale Angelo: comincia con un resoconto freddo degli accadimenti, e poi si perde in quisquilie personali, in fatterelli tangenziali, in notazioni non richieste… in questo disperdersi romanzesco della compattezza scenica (che non scompare, ma è ritrovata intatta in ognuno dei rivoli quale “consistenza della parola e dell’azione” ormai liberatasi dei corsaletti drammaturgici), c’è davvero tutto l’assetto stilistico del film. Un film che spezza l’incantesimo malefico (del cinismo) di Senso, disgregando sia la storia con la esse minuscola che quella con la esse maiuscola. L’aggancio romanzesco tra piano individuale e piano collettivo non è mai stato perso: lo dobbiamo ancora trovare. Sono stati già da sempre fatti gli italiani, l’Italia è ancora da fare.

 

11:09:2010