Incipit roboante e assolutamente trascinante tra balli,
stacchi di gamba, lustrini e movimenti di camera avvolgenti illudono sulla
meraviglia della macchina del cinema che in Nine
si inceppa con l’avviarsi del racconto.
Il protagonista, il regista Guido Contini (Daniel Day-Lewis), osannato da
critica e pubblico, è in crisi esistenziale dopo il flop degli ultimi suoi
due film e si chiede come affrontare l’imminente inizio delle riprese del
suo prossimo, atteso lavoro.
Come prima risposta si nasconderà in un albergo di lusso fuori Roma, dove
già tutti lo conoscono e dove il set non mancherà di raggiungerlo.
In crisi con se stesso, con la moglie, con il cinema, Guido Contini dovrebbe
essere l’alter ego di Federico Fellini negli anni della Dolce Vita di cui in
Nine viene proposta una
scialba imitazione della vitalità dei locali, della gioia di vivere, dello
spirito ottimistico dei Favolosi Anni Sessanta.
Il risultato non è né un omaggio, né un revival, né una riflessione, né un
divertimento, vorrebbe essere forse tutto questo nello stesso tempo, ma lo
sfarzo, l’imponenza dei mezzi, la musica enfatica non bastano ad emozionare
e a dare un’anima a un personaggio spento, che pare chiedersi per tutto il
tempo “Cosa ci faccio qui?”.
Persino il cast non è a proprio agio, Daniel Day-Lewis suona falso e
stonato, Penepope Cruz sfodera tutta la propria vitalità ma il suo
personaggio è stereotipato e persino nelle parti coreografiche il fascino
della bella spagnola non convince, per non parlare della performance di
Sofia Loren, ombra di se stessa. Unico raggio di freschezza e simpatia lo
dona la brava Judi Dench nel ruolo di Liliane La Fleur, pungente costumista
e confidente di Guido.
Il regista Rob Marshall non riesce a replicare la classe di
Chicago, e costruisce un film
vuoto, non divertito, sopra le righe e senza una vera meta da raggiungere.
22:02:2010
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