pubblic enemies

di Michael Mann

con Johnny Depp, Christian Bale
Altri interpreti: Channing Tatum, Marion Cotillard

di Marco GROSOLI

 

30/30

 

La storia di Dillinger, è nota a tutti. Specialmente le sue ultime, tragiche propaggini, quelle dal 1933 in poi. Meno che mai, per un regista stylish come Michael Mann, il punto poteva essere “la storia”. E infatti più che una progressione narrativa qui abbiamo un insieme di fatti che brontolano come il tuono che aspetta di esplodere, e che lo fa in modo rigorosamente inaspettato, irrompendo senza preavviso. No, non è quello il punto.

Il punto di Public Enemies è invece, e innanzitutto, mostrare Dillinger nella prima parte che va dentro e fuori dal carcere, e dentro e fuori dalle sale cinematografiche nella seconda. Cioè quando torna a Chicago dopo esserne (di nuovo) “momentaneamente evaso”. Ma non è certo la curva seducente della parabola in calare che interessa a Mann, cioè quando amici e colleghi voltano le spalle a Dillinger dopo che troppe cose a Chicago sono cambiate in una volta sola. E neppure il cortocircuito tra la legge e il fuorilegge, tra i metodi estremi dell’agente federale Melvin Purvis (che sappiamo avrà la meglio) e il bandito feroce che non ruba i soldi dei risparmiatori, ma solo quelli delle banche. Questa, e tutte le altre tracce narrative (persino quella passionale tra lui e la mezzosangue franco-indiana Billie) vivono neanche il tempo di un mattino, neanche il tempo di un respiro, ma giusto quello della sua impressione (e successiva evanescenza) direttamente sulla retina.

Perché quello che invece interessa a Mann è, se così si può dire, una sorta di “archeologia del digitale”. Ovvero: abusare violentemente dell’alta definizione del digitale per suggerire sensorialmente un senso di presenza “qui-ed-ora” assolutamente mai visto prima al cinema – e d’altro canto però insistere sull’articolazione tra le immagini, su un’ombra di potente linguaggio filmico. Mai come in questo film tutti gli assi, le angolazioni e i punti di riferimento visivi saltano in favore della sensazione epidermica di “essere lì”, sullo schermo, vicinissimi al sangue che scorre fuori dalle vene, alla polvere che ricopre un corpo trascinato da una macchina in corsa. E allo stesso tempo, mai come in questo film (il più virtuosisticamente montato dei film di Mann, anche più di Collateral), abbiamo la sensazione che mentre avvertiamo questi stimoli ci sia un’azione che va tessendosi con paradossale classicità e spigolosa geometria. Il “qui-ed-ora” che non solo diventa cinema, e quindi viene sostanzialmente distanziato e differito, ma viene distanziato e differito proprio qui ed ora. Come nella magnifica scena in cui il capo di Purvis si mostra davanti all’obbiettivo insieme a un gruppo di bambini sciorinando un discorsetto retorico; impercettibilmente, il colore lascia spazio al bianco e nero, la macchina da presa indietreggia, compaiono i primi graffi di pellicola e (sempre senza stacchi di montaggio) ci ritroviamo in una sala cinematografica, dove appunto si sta proiettando un cinegiornale dove il capo di Purvis rivolge un appello al pubblico del cinema. In questo senso “archeologia del digitale”: riallacciamento del cordone ombelicale tra la sensazione brutale di presenza che ci dà il digitale, e il cinema. Esasperare la sensazione di presenza per ribaltarla in una mancanza più che mai presente.

La prima volta che vediamo Purvis, insegue un bandito (Pretty Boy Floyd). Un centinaio di metri separa l’uno dall’altro. Purvis spara e lo colpisce. Ma non abbiamo il solito taglio di montaggio dal colpo di fucile alla pallottola che colpisce l’inseguito. Qui, a causa dell’insistenza della regia, negli attimi di poco precedenti, sulla distanza fisica tra i due, quando vediamo inquadrato il grilletto da molto vicino e immediatamente dopo la pallottola che colpisce Floyd di nuovo da molto vicino, la sensazione che ne abbiamo è molto diversa. La quasi-simultaneità di questa dinamica ci fa sentire a pelle come, qui, l’azione viene resa visivamente con una aderenza tale da scavalcarla, da tramutarsi in bagliore immobile. Siamo tanto vicini all’azione (in tutti i sensi) che essa ci sfugge, evaporando di fatto. Non è un caso se, a cominciare proprio dalla citata scena del cinegiornale, Dillinger (insieme a quelli della sua banda) sfugge innumerevoli volte a chi lo insegue, proprio da sotto il loro naso. Ma nemmeno lui sfugge all’immagine: si può fuggire sempre dal carcere, ma dal cinema mai del tutto. E infatti proprio all’uscita di un cinema, in una stupenda scena lunga sospesa e rigonfia come piace a Mann, viene fatto fuori. L’ultima spiaggia di Dillinger infatti è rivedere la propria immagine (al commissariato, al cinema, negli occhi della folla che lo acclama…). Anzi: coabitare lo spazio della propria immagine, risibile monumento di sé captato proprio mentre la luce di Dante Spinotti investe i suoi corpi in modo da fare sembrare monumentale anche il minimo grano di polvere, anche il più indifferente dei pixel.

Perché allora l’immagine si rivela così onnipotente, tanto da braccare anche chi fugge sempre, come Dillinger? Ce lo dice il finale, mozzafiato, in cui tutto il gioco di Mann si palesa per il gioco linguistico che è: non si rivelerà qui certo come, ma vedendolo il folgorante excipit del film apparirà come un chiarissimo riferimento alla radicale interdipendenza tra il linguaggio e l’informe, proprio come la legge e il fuorilegge. L’immagine è proprio questa soglia, questa pellicola che unisce e separa l’informità (quella brulicante del digitale) e le tessiture di senso (del linguaggio), il balbettio vivo e zoppicante e l’eloquenza inerte e perfetta. E che quindi bracca tanto la guardia quanto il ladro.

E allora, quando il crollo dell’economia fa saltare questo confine (che sia il 1929 di Public Enemies o che sia oggi) vale la pena ricordarsi che questa soglia, da qualche parte, c’è. Anche se, come solo vedendo il cinema di Mann succede, la sentiamo senza vederla.

 

02:08:2009

Public Enemies
Regia Michael Mann
Stati Uniti 2009, 143'

DUI: 06 novembre 2009
Poliziesco