VENEZIA.66

 

my son, my son, what have you done

di Werner Herzog
Stati Uniti 2009, 90'

 

In Concorso

 

30/30

David Lynch produce Werner Herzog. La cosa non sorprende, anzi in qualche modo è del tutto logico che sia successo. In fondo, il cinema stesso di Lynch può a buon diritto apparire un’escrescenza mostruosa del cinema di Herzog.

Forse dunque non è un caso che il film è proprio a proposito della genesi, della germinazione, della nascita. E soprattutto del tentativo di farla finita con tutto questo. Il protagonista della vicenda (che pare ispirata a una storia vera) uccide sua madre. E odia la natura, il rigoglio inarrestabile dell’esistere: il suo primo piano che dice “tenetevi pure le vostre meditazioni, le vostre erbe, i vostri indiani che fumano a 108 anni e tutto il resto” la dice lunga su quanto Herzog di recente (Grizzly Man su tutti) abbia voluto chiarire che la sua mania per la natura è un esorcismo. Un esorcismo verso tutto ciò che è sublime, nel senso letterale di “mostruosamente eccessivo”, di impossibile da fronteggiare. Che dunque è oggetto non certo di feticismo estetizzante e contemplativo, ma di una specie di attrazione-repulsione. E allora, via l’archetipo materno, via la natura. Dentro ciò che c’è più di ordinario: l’”eroe” è un ragazzo della suburbia californiana, viziato dalla madre, unico superstite di una spedizione in Perù perché si è rifiutato di andare in canoa su rapide impossibili che gli ingenui amici hanno sottovalutato. Un personaggio insieme minuscolo e titanico, che crede che Dio sia l’omino disegnato sui barattoli della farina d’avena e che va a trovare il non meno pazzoide zio allevatore di struzzi per prenderne la spada e uccidere la madre come avrebbe invece dovuto fare solo a teatro, recitando l’Orestea insieme alla sua compagnia. Un detective accorre sulla scena del delitto (è l’inizio del film), dove una testimone gli svela l’autore dell’omicidio. Il quale si barrica armato in casa, e si fa assediare da dispiegamenti sempre più ingenti di polizia, mentre il detective intervista chi lo conosce per capire con chi sta avendo a che fare.

E in questo modo, innesca una serie di flashback che fanno luce sulla vita del protagonista, non come lo farebbe un racconto, con le sue cause e i suoi effetti, ma per bagliori successivi di illuminata bizzarria. Del resto, lui stesso si è rifiutato di mettere in scena una tragedia (l’Orestea): meglio viverla, meglio incarnarla, meglio farsene possedere, meglio dissolvere le articolazioni del racconto nel bagliore accecante della presenza. Herzog allora si rifiuta di piangere davanti alle sentenze del destino: le accoglie invece con una strana serenità, arrivando a ciò che è già scritto (la cattura dell’assediato) non come si risolve un’equazione logica, ma facendosi strada caparbiamente tra un’illuminazione e l’altra, spaesato in mezzo a frammenti visionari che non si lasciano toccare perché splendono della loro squilibrata e muta eloquenza. I soliti nani (figuriamoci: tra Lynch e Herzog, come potevano mancare??), le magnificenze architettoniche di Calgary (!), fenicotteri chiamate “aquile travestite” e quant’altro, non sono i pezzi di un puzzle che messi insieme danno l’incontornabile protagonista, ma gli ingredienti di un’alchimia che ricopre l’esistente più triviale e ordinario di un’impalpabile sacralità. Dove anche consegnare una pizza dentro un garage sembra un rito secolare, amplificato e rigonfio di un’aura che non è la potenza terribile della natura, ma della vitalità piccola e smisurata di chi sa che non si può essere che contronatura. Senza tragedia, e senza ironia, ma con una superiore, saggia, commossa serenità.  

 

06:09:2009

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Venezia, 02/12 settembre 2009