MY AMERICA - OR HONK IF YOU LOVE BUDDHA
di Renee Tajima-Pena

Essere giapponese in America e ritrovare la propria identità nel passato e nel futuro cercando tra le vite di altri asiatici immigrati, è il nocciolo della questione nel film on the road di Renee Tajima-Pena. E' interessante che lei non cerca la giapponesità, bensì intervista e valorizza cinesi, laotiani, giapponesi, filippini e coreani, tutti con una storia diversa, ma con una lotta comune: essere rispettati nella nuova terra per la quale danno tutto (o quasi). C'è chi è voluto venire in America rincorrendo un sogno di libertà e uguaglianza, e chi invece per guadagnare in contanti e in faccia. I secondi, avevano uno stile di vita diverso dal primo - arricchirsi e poi andarsene - ma resisi conto che anche il capitale permette di realizzare una propria battaglia per un ruolo sociale all'interno dell'America bianca. Spesso invece il sogno si è invece infranto e la vita consisteva in correre via dagli abusi o sopportare. Poi c'è chi è stato deportato e chi è nato nella terra promessa senza volerlo, e di questi, in genere, si parla ben poco. L'autocollante sul cofano "Suona il clacson se ami Budda" e la constatazione tranquillizzante che oggi non si deve più lottare per essere accettati dagli americani perché "si è americani", chiudono le precedenti ferite, dubbi e codesta ricerca e sono l'essenza di una strada nuova tutta da percorrere. Per la regista e realizzatrice del video ovviamente. Altri stanno ancora navigando tra passato e presente, e altri ne verranno, perché l'America resta per molti abitanti del pianeta "the United States of A-miracle". Girato spesso come video narrativo, ma intercalato da film d'autore d'ispirazione come "Chan is missing" e "Eat a Bowl of Tea" di Wayne Wang, immagini d'infanzia, sequenze storiche, fotografie sgualcite, interviste ai personaggi-guida come il ribelle ed ecclettico Victor Wong (l'attore preferito dallo stesso Wang), l'opera di Tajima-Pena entra in profondità nelle vicende personali, nelle memorie e nelle azioni attuali di questi persone che gli asiatici rimasti in patria chiamano banana: gialli fuori e bianchi dentro. Come nei migliori film di Wang, questo documentario-auto-biografico procede con ansia e ironia, che ci ricorda tanto l'humour linfatico della diaspora ebrea.

Voto: 27/30

Daniela KAPPLER
04 - 01 - 02


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