MUNICH

di Steven Spielberg
Con Eric Bana, Daniel Craig

di Marco GROSOLI


La storia (vera) di Avner Kaufman, uomo comune chiamato a guidare i vendicatori della strage di Monaco del '72, un gruppo di improvvisati agenti segreti con il compito di uccidere i mandanti dell'exploit terroristico dell'olimpiade tedesca.
Spielberg questa volta prende di petto l'ebraismo, senza filtri. Senza che la fantascienza “rappresenti” la nostalgia lacerante della messianicità (Incontri ravvicinati del terzo tipo, ET), senza alludere all'universo concentrazionario (The terminal, L'impero del sole, Jurassic Park), o al Leviatano (La guerra dei mondi). Il messaggio è chiaro: la scissione fatale tra ebraismo e stato d'Israele, così come lo dice esplicitamente il finale in cui Avner rifiuta di tornare in patria. La patria è salva, sì, ma l'ebreo è destinato all'esilio sempre e comunque.
Il protagonista rimane a Brooklyn, la dura esperienza violenta maturata gli dice che il denaro, grande alleato del suo popolo, è troppo invisibile, immateriale e onnipotente per non tirarsi dietro le influenze ambigue degli “stranieri” – vale a dire gli agenti francesi, un padre e un figlio in conflitto che simboleggiano la cristianità tutta essendo quest'ultima la scissione tragica del Padre (Dio) dal Figlio (Cristo). E penetrata, non dall'esterno, ma dall'interno dell'ebraismo stesso (ovvero attraverso il denaro), quest'influenza aliena (e l'ebraismo tragicamente destinato a sfociare in un cristianesimo che non può più sentire alieno fa pensare all'analogo assunto di un altro film recente e incompreso: La passione di Giosuè l'ebreo di Scimeca), nulla sarà più come prima, tutti sospettano di tutti, crollano le certezze, sfuma il precetto veterotestamentario (perciò ebraico doc, e puntualmente citato dai dialoghi) secondo cui è la vendetta violenta a dare fondamento concreto al popolo. Perché la vendetta ora è in mano a interessi economici inavvicinabili che ripugnano la “sana” vendetta biblica dell'occhio per occhio (la mattanza della spia olandese effettuata per vendicarsi della morte dell'amico è malissimo vista dai “piani alti” dell'operazione), gli alleati statunitensi hanno tutto l'interesse a tenere in vita il terrorismo (il film è molto esplicito in questo senso, si veda la prima scena in cui i terroristi scavalcano la rete del villaggio olimpico grazie a un gruppo di americani), fino a far sfumare il confine stesso col nemico: il palestinese che parla con Avner dice esattamente ciò che potrebbe dire un qualunque ebreo, il mondo deve vedere quello che ci avete fatto, siamo condannati a non avere una patria, al nomadismo tragico eccetera.
Il denaro come linfa vitale, e nello stesso tempo dissoluzione profonda, dell'ebraismo. Ma ovviamente Spielberg non dice che noi e loro siamo tutti uguali, ci mancherebbe. Ha piuttosto il coraggio di ritornare alle radici vere dell'ebraismo, sotto le incrostazioni spurie così facili ad attecchire. Se lo scrittore musulmano che nel film presenta le mille e una notte dice del legame tra narrazione e sopravvivenza, Spielberg sa di trovarsi da una parte diversa, non è ipocritamente “multiculturalista”. Contemporaneamente all'oratore arabo, inserisce nel film una ragazzetta che parla di cose senza senso in macchina per permettere al killer israeliano di spiare indisturbato: l'importante, insomma, non è più la narrazione, ma il caos conoscitivo che è la nuova frontiera dell'esilio (e quindi dell'ebraismo), la nuova orfananza che possa segnare davvero un progetto di umanità. Il nuovo esilio è l'esilio senza frontiere, l'uomo che non solo per soddisfare il desiderio patriottico della madre se ne separa per sempre, ma che per salvare la famiglia (come in History of violence) dice addio alla felicità coniugale (la bellissima scena di sesso montata parallelamente al massacro sull'elicottero) autocondannandosi ad avere per sempre la testa ed il cuore da un'altra parte (la scena di sesso finale montata alternatamente al massacro dell'elicottero). Il nuovo esilio è anche dentro la nuova terra promessa che è la famiglia. Non si scappa dall'esilio: è questo che Spielberg ricorda a uno stato di Israele che fa, è proprio il caso di dirlo, orecchie da mercante.
Non la narrazione-vendetta importa, ma il caos che ne deriva, la destabilizzazione a 360°. Certo, ebraismo significa aderenza totale al Testo (sacro proprio in quanto Testo, in quanto scrittura), ma l'inverarsi della lettera porta alla sua dissoluzione, il compimento stesso dell'ebraismo porta alla sua dissoluzione, ossia la vendetta (della banda di Avner) porta necessariamente a sporcarsi le mani con il cristianesimo (i due francesi) e a rinunciare alla purezza biblica della vendetta stessa – il Testo (ebraico per eccellenza) compiendosi diventa Immagine (cristiana per eccellenza), e perciò si dissolve. La narrazione cede il passo alla dissoluzione che in ultima analisi “è” l'immagine nella sua costitutiva ambiguità, ma questo passaggio è dettato dal “destino” intrinseco della narrazione stessa, dell'anima del Testo, e dunque dell'ebraismo. L'ebraismo è destinato a trascendere per “scioglimento” la narrazione che lo fonda così profondamente. Perciò Spielberg non racconta più i campi di concentramento, anzi rinuncia alla restrizione degli spazi (che prima fornivano sempre l'allusione diretta ai campi) per dispiegarsi spazialmente più libero che mai nelle parti più svariate del mondo, e gira scene di un'ariosità, di una concertazione “spalancata” quasi depalmiana (l'esplosione del telefono e conseguente salvataggio della bambina). Non racconta una serie di fatti ma riporta la sua dissoluzione, non mostra la strage di Monaco ma la fa sognare al protagonista sul vetro dell'aeroplano – oppure, che è lo stesso, raccoglie (a inizio film) i frantumi dell'evento sugli schermi televisivi dopo il passaggio in mondovisione delle news. L'evento è direttamente, immediatamente la sua immagine, perciò questo, come quella, si disgregano reciprocamente nella loro coesistenza fatale che è il presente. Perciò l'immagine non racconta, tuttalpiù racconta l'esilio del senso rispetto a se stessa, la sua radicale ambiguità sostanziale (gli speaker che annunciano la sopravvivenza degli ostaggi poi drammaticamente smentita). È il significato chiaro della breve, folgorante inquadratura della tv in primo piano che mostra il terrorista incappucciato sporgersi dal balcone, e contemporaneamente, sullo sfondo, lui stesso che si sporge “dal vivo” - ma è altrettanto chiaramente l'attacco alle twin towers dell'11 settembre in mondovisione. Perciò il film termina sulle torri gemelle: non importa quale lido ci appaia di aver raggiunto, che sia una patria, una famiglia... in quanto immagine (ovvero: il compimento/dissoluzione del destino ebraico del Testo), essa si frantuma sotto i nostri occhi (ed è QUESTO il nuovo angosciante esilio cui è condannato l'uomo contemporaneo, che per Spielberg è inevitabilmente simbleggiato dall'ebreo) senza che ce ne possiamo accorgere (grazie sempre all'invisibile onnipotenza del Capitale, palesemente protagonista di questo film), come le “buone intenzioni” di Avner si liquefanno sotto i suoi, e nostri, occhi impotenti.
 

Voto: 30/30

04:02:2006

MUNICH

Regia: Steven Spielberg
Anno: 2005
Nazione: Stati Uniti d'America
Data uscita in Italia: 25:01:2006
Genere: Azione