La storia (vera) di Avner Kaufman, uomo comune chiamato a guidare i
vendicatori della strage di Monaco del '72, un gruppo di improvvisati agenti
segreti con il compito di uccidere i mandanti dell'exploit terroristico
dell'olimpiade tedesca.
Spielberg questa volta prende di petto l'ebraismo, senza filtri. Senza che
la fantascienza “rappresenti” la nostalgia lacerante della messianicità
(Incontri ravvicinati del terzo tipo, ET), senza alludere all'universo
concentrazionario (The terminal, L'impero del sole, Jurassic Park), o al
Leviatano (La guerra dei mondi). Il messaggio è chiaro: la scissione fatale
tra ebraismo e stato d'Israele, così come lo dice esplicitamente il finale
in cui Avner rifiuta di tornare in patria. La patria è salva, sì, ma l'ebreo
è destinato all'esilio sempre e comunque.
Il protagonista rimane a Brooklyn, la dura esperienza violenta maturata gli
dice che il denaro, grande alleato del suo popolo, è troppo invisibile,
immateriale e onnipotente per non tirarsi dietro le influenze ambigue degli
“stranieri” – vale a dire gli agenti francesi, un padre e un figlio in
conflitto che simboleggiano la cristianità tutta essendo quest'ultima la
scissione tragica del Padre (Dio) dal Figlio (Cristo). E penetrata, non
dall'esterno, ma dall'interno dell'ebraismo stesso (ovvero attraverso il
denaro), quest'influenza aliena (e l'ebraismo tragicamente destinato a
sfociare in un cristianesimo che non può più sentire alieno fa pensare
all'analogo assunto di un altro film recente e incompreso: La passione di
Giosuè l'ebreo di Scimeca), nulla sarà più come prima, tutti sospettano di
tutti, crollano le certezze, sfuma il precetto veterotestamentario (perciò
ebraico doc, e puntualmente citato dai dialoghi) secondo cui è la vendetta
violenta a dare fondamento concreto al popolo. Perché la vendetta ora è in
mano a interessi economici inavvicinabili che ripugnano la “sana” vendetta
biblica dell'occhio per occhio (la mattanza della spia olandese effettuata
per vendicarsi della morte dell'amico è malissimo vista dai “piani alti”
dell'operazione), gli alleati statunitensi hanno tutto l'interesse a tenere
in vita il terrorismo (il film è molto esplicito in questo senso, si veda la
prima scena in cui i terroristi scavalcano la rete del villaggio olimpico
grazie a un gruppo di americani), fino a far sfumare il confine stesso col
nemico: il palestinese che parla con Avner dice esattamente ciò che potrebbe
dire un qualunque ebreo, il mondo deve vedere quello che ci avete fatto,
siamo condannati a non avere una patria, al nomadismo tragico eccetera.
Il denaro come linfa vitale, e nello stesso tempo dissoluzione profonda,
dell'ebraismo. Ma ovviamente Spielberg non dice che noi e loro siamo tutti
uguali, ci mancherebbe. Ha piuttosto il coraggio di ritornare alle radici
vere dell'ebraismo, sotto le incrostazioni spurie così facili ad attecchire.
Se lo scrittore musulmano che nel film presenta le mille e una notte dice
del legame tra narrazione e sopravvivenza, Spielberg sa di trovarsi da una
parte diversa, non è ipocritamente “multiculturalista”. Contemporaneamente
all'oratore arabo, inserisce nel film una ragazzetta che parla di cose senza
senso in macchina per permettere al killer israeliano di spiare
indisturbato: l'importante, insomma, non è più la narrazione, ma il caos
conoscitivo che è la nuova frontiera dell'esilio (e quindi dell'ebraismo),
la nuova orfananza che possa segnare davvero un progetto di umanità. Il
nuovo esilio è l'esilio senza frontiere, l'uomo che non solo per soddisfare
il desiderio patriottico della madre se ne separa per sempre, ma che per
salvare la famiglia (come in History of violence) dice addio alla felicità
coniugale (la bellissima scena di sesso montata parallelamente al massacro
sull'elicottero) autocondannandosi ad avere per sempre la testa ed il cuore
da un'altra parte (la scena di sesso finale montata alternatamente al
massacro dell'elicottero). Il nuovo esilio è anche dentro la nuova terra
promessa che è la famiglia. Non si scappa dall'esilio: è questo che
Spielberg ricorda a uno stato di Israele che fa, è proprio il caso di dirlo,
orecchie da mercante.
Non la narrazione-vendetta importa, ma il caos che ne deriva, la
destabilizzazione a 360°. Certo, ebraismo significa aderenza totale al Testo
(sacro proprio in quanto Testo, in quanto scrittura), ma l'inverarsi della
lettera porta alla sua dissoluzione, il compimento stesso dell'ebraismo
porta alla sua dissoluzione, ossia la vendetta (della banda di Avner) porta
necessariamente a sporcarsi le mani con il cristianesimo (i due francesi) e
a rinunciare alla purezza biblica della vendetta stessa – il Testo (ebraico
per eccellenza) compiendosi diventa Immagine (cristiana per eccellenza), e
perciò si dissolve. La narrazione cede il passo alla dissoluzione che in
ultima analisi “è” l'immagine nella sua costitutiva ambiguità, ma questo
passaggio è dettato dal “destino” intrinseco della narrazione stessa,
dell'anima del Testo, e dunque dell'ebraismo. L'ebraismo è destinato a
trascendere per “scioglimento” la narrazione che lo fonda così
profondamente. Perciò Spielberg non racconta più i campi di concentramento,
anzi rinuncia alla restrizione degli spazi (che prima fornivano sempre
l'allusione diretta ai campi) per dispiegarsi spazialmente più libero che
mai nelle parti più svariate del mondo, e gira scene di un'ariosità, di una
concertazione “spalancata” quasi depalmiana (l'esplosione del telefono e
conseguente salvataggio della bambina). Non racconta una serie di fatti ma
riporta la sua dissoluzione, non mostra la strage di Monaco ma la fa sognare
al protagonista sul vetro dell'aeroplano – oppure, che è lo stesso,
raccoglie (a inizio film) i frantumi dell'evento sugli schermi televisivi
dopo il passaggio in mondovisione delle news. L'evento è direttamente,
immediatamente la sua immagine, perciò questo, come quella, si disgregano
reciprocamente nella loro coesistenza fatale che è il presente. Perciò
l'immagine non racconta, tuttalpiù racconta l'esilio del senso rispetto a se
stessa, la sua radicale ambiguità sostanziale (gli speaker che annunciano la
sopravvivenza degli ostaggi poi drammaticamente smentita). È il significato
chiaro della breve, folgorante inquadratura della tv in primo piano che
mostra il terrorista incappucciato sporgersi dal balcone, e
contemporaneamente, sullo sfondo, lui stesso che si sporge “dal vivo” - ma è
altrettanto chiaramente l'attacco alle twin towers dell'11 settembre in
mondovisione. Perciò il film termina sulle torri gemelle: non importa quale
lido ci appaia di aver raggiunto, che sia una patria, una famiglia... in
quanto immagine (ovvero: il compimento/dissoluzione del destino ebraico del
Testo), essa si frantuma sotto i nostri occhi (ed è QUESTO il nuovo
angosciante esilio cui è condannato l'uomo contemporaneo, che per Spielberg
è inevitabilmente simbleggiato dall'ebreo) senza che ce ne possiamo
accorgere (grazie sempre all'invisibile onnipotenza del Capitale,
palesemente protagonista di questo film), come le “buone intenzioni” di
Avner si liquefanno sotto i suoi, e nostri, occhi impotenti.
Voto: 30/30
04:02:2006 |