Un film nel '91, uno nel '98, e poi basta. La carriera di
Jaco van Dormael è stata sempre un mistero.
Ora non più. Mr. Nobody ci
rivela che la carriera di Jaco van Dormael non è carente di film, ma è piena
di film che non ha mai fatto.
Il 118enne Nemo Nobody, in una civiltà futura e futuristica, sta per morire.
È l’ultimo mortale. Lascia allora sui nastri di un giornalista accorso ad
intervistarlo un’infinità di vite possibili, in cui non è affatto chiaro
quale sia “quella vera”. Una vita piena di sentieri che si biforcano e si
intrecciano: Nemo che sceglie la mamma o che sceglie il papà a 9 anni dà
vita a due vite parallele, ciascuna di essa si ramifica e così via. Tutte
consistono nel medesimo spazio, in una medesima potenzialità, il cui
passaggio all’atto non è “realizzazione” di una vita anziché di un’altra, ma
espressione qui ed ora della potenzialità pura.
Qui sta la grandezza del film. Non negli arzigogoli di sceneggiatura (che
son buoni tutti), ma nel capire come il racconto non vada espanso
baroccamente, ma piuttosto perennemente bloccato. La potenzialità non si
realizza in atto, ma trova un volto (è proprio il caso di dirlo)
nell’infinito profluvio di sguardi in macchina che bloccano la narrazione,
il racconto lineare, e rispediscono al mittente lo sguardo dello spettatore.
L’istante è la crisalide di se stesso, che invece di diventare farfalla muta
subito dopo in un’altra crisalide – uno sguardo in macchina che non fa
avanzare il racconto, ma spiana la strada a un altro sguardo in macchina. Se
tutto il racconto viene diligentemente identificato (è Nemo stesso che lo
dice) come il momento in cui l’universo, finalmente alla fine
dell’espansione entropica illimitata del big bang, comincia a rapprendersi e
a richiudersi in un’unica massa. Un unico sguardo in macchina che racchiude
tutti i percorsi possibili, e dopo del quale può esserci non un passo
successivo ma un nuovo sguardo in macchina.
Se l’universo si rapprende non significa che il futuro
indietreggia al presente e da qui al passato. Cioè: volendo è anche questo
(il film finisce così infatti), ma Van Dormael è bravo a capire che è
soprattutto questione dello sguardo dello spettatore, che è l’unico che poi
delimita davvero il terreno del “qui” e dell’”ora”, ed è lui a ritornare
immediatamente indietro. Non la linea del tempo a ritroso, ma lo sguardo che
istantaneamente, in un unico fulmineo attimo, fa avanti-indietro. Il
racconto, con le sue progressioni, si intirizzisce e blocca, anche se
l’affabulazione delle immagini è irresistibilmente appassionata e senza una
sola caduta di ritmo. Uno “strabismo” miracoloso reso possibile proprio dal
riproporsi della fissità ghiacciata dell’istante, che sostituisce e scalza
la narrazione dal suo primato.
Per questo la prima inquadratura è lo sguardo in macchina di Nemo (uno dei
Nemo possibili) morto. E per questo l’amore, l’unico vero tra i tanti amori
delle tante vite di Nemo, è quello che fa contrarre tutte le vite possibili
in un unico istante, in modo uguale ma diversissimo dalla morte che a ogni
istante si ripropone guardandoci in faccia.
12:09:2009
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