Nel
suo primo lungometraggio basato in parte sulla sua esperienza personale,
il giovanissimo regista singaporense, Meng Ong, riprende intelligentemente
un argomento straraccontato, in particolare in questa rassegna a Locarno,
e senza esasperare l'introspezione né incolpare nessuno finalmente sdemonizza
la figura paternalistica del maschio americano. Pure Ah Na non è pari
pari una versione 2000 di Suzie Wong.
Quando l'atteggiamento ironico nei confronti del presente è riconquistato
dal dramma di una vita passata, il dolore emerge insinuandosi senza pietà
nel quotidiano. Un sogno radicato e la disperazione fanno sì che il circolo
vizioso non si chiuda, fino a quando il carattere pragmatico e la testardaggine
di Ah Na, la protagonista, non diventano un caposaldo per uscirne e cominciare
una nuova vita.
Il passaggio attraverso questo tunnel interiore significa per Ah Na prenderne
coscienza, mentre fuori le regole del nuovo mondo non perdonano, anche
se meno letali di quelle tradizionali che sopravvivono nel villaggio cinese
da lei rifuggito. Ah Na non è emigrata a New York clandestinamente per
fame o guerra o per seguire solo una fata morgana. L'aids è un incubo
che sta iniziando perseguitare anche i cinesi e le antiche superstizioni
vivissime nelle campagne non possono che infliggere pene ancora più pesanti
a chi ne è affetto.
In Meng Ong la rappresentazione del dolore famigliare riprende canoni
palesemente cinesi, al contrario nei tratti di commedia si avvicina al
humour New Yorkese. Un'opera al passo con i tempi, se non fosse tecnicamente
semplice, patinata e classicheggiante, ma al meno così sarà piaciuta a
sua madre, come era suo desiderio. Essa verrà mostrata prossimamente in
molte città europee (le tappe italiane includono Milano e Roma) ed extraeuropee.
Voto: 27/30
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