
Quello di Ermanno Olmi è un cinema difficile, e non tanto nella scelta
delle tematiche, ma per come si presenta allo spettatore. Il primo impatto
con IL MESTIERE DELLE ARMI non è infatti dei più agevoli: la voce fuori
(ma in parte in) campo è quella di Pietro Aretino, la vicenda è ambientata
negli ultimi mesi del 1526 ed anche il linguaggio è coerente al contesto
scelto. Non è semplice, poi, anche in ragione del momento storico in cui
il regista ha scelto di collocare la finzione filmica: è il momento di
trapasso tra il tardo Medioevo e il Rinascimento, Carlo V e i suoi mercenari
intendono conquistare Roma, e a difesa del Papa c'è l'armata pontificia
con a capo Giovanni De' Medici. Un'ambientazione e un quadro storico non
molto richiesti, almeno di recente, dal cinema, forse anche in ragione
di una loro scontata ed eccessiva distanza da un pubblico, che potrebbe
quasi averne soggezione.
Per Olmi, tuttavia, questa è l'occasione per raccontare soprattutto la
vita emblematica di un uomo: un grande uomo, la cui grandezza non gli
ha permesso però di vincere i grandi passi della Storia. Giovanni de'
Medici - viene detto spesso - è un grandissimo combattente, un maestro
nell'arte della guerra, un uomo di cui qualcuno critica perfino l'eccessiva
"passione" per il combattimento: quell'amore che lo spinge a cercare sempre
lo scontro, anche di notte e se nevica. E' un valoroso, ma qualcuno è
più furbo di lui, e l'abilità di Olmi è proprio nel preparare con cura
lo scontro tra le armate, nell'arricchire le sue spettacolari inquadrature
di armi, cavalli e grandi spazi, nell'alzare la tensione per tre quarti
del film per poi renderla vana quando, a battaglia appena iniziata, un
colpo di cannone ferisce a morte Giovanni. L'onore non ha più senso, o
almeno ha assunto altri parametri: la lealtà e il rispetto del nemico
sono ormai un segno di debolezza.
Non abbiamo rovinato "la sorpresa" parlando della morte di Giovanni in
battaglia, perché ciò è noto già nei primissimi secondi del film. Olmi
ha scelto infatti una costruzione a macro-flashback, partendo dalle esequie
del cavaliere per chiudere il cerchio nel finale: si tratta di un'operazione
simile, ad esempio, a quella dell'OTELLO di Welles, dove i funerali del
Moro venivano anteposti al resto del racconto. Così facendo Olmi sottrae
a chi guarda l'attesa degli eventi: Giovanni è morto il 30 novembre del
1526; detto questo la narrazione può riprendere da dieci giorni prima.
L'attenzione allora si concentra esclusivamente sul perché di quella fine,
sui dolori e sulle pulsioni dell'uomo Giovanni de' Medici, sul suo amore
per le donne (davvero efficace il montaggio alternato sul dolore e il
ricordo d'amore verso la fine) e sulle ragioni profonde della fine di
una ragione di vita e del pensiero di un secolo. E Olmi - quasi per limitarsi
a testimoniare - non muove mai la m.d.p., tiene e le inquadrature e ne
riduce il numero, sceglie il movimento "interno" al quadro, fosse anche
quello di un volto. Solo quando vuole davvero che lo spettatore colga
il sentire di Giovanni, inserisce qualche zoomata a cogliere paralleli
e antitesi tra il suo volto e i soggetti dipinti sulle parenti della stanza
in cui è rinchiuso.
Voto: 28/30
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