
E’ finalmente arrivato nelle sale, dopo il
fermo della censura durato diverse settimane, l’ultimo film di Amir Naderi,
il regista iraniano che trasferitosi a New York nel 1986, conclude con
questo film la sua trilogia Newyorchese. Gli altri due film che danno vita a
questa trilogia sono Manhattan in
cifre del 1993 e A.B.C.
Manhattan del 1997. Nel lontano 1976, Naderi aveva realizzato a New
York Made in Iran.
Quest’ultimo film è stato girato in estrema economia, tanto che il regista
figura sia come montatore che come fonico. Unica protagonista di questa
pellicola in bianco e nero è la giovane e bella Sara Paul che avevamo potuto
ammirare già in A.B.C. Manhattan.
L’attrice interpreta il ruolo di una ragazza che tenta di superare il suo
record di parole crociate. Nella metropolitana incontra un bel ragazzo che
le fa il filo ma lei non ne vuole sapere e continua nel suo allenamento
quotidiano. A farle compagnia è la voce della madre che fuoriesce dalla
segreteria telefonica. Se da un lato la voce si preoccupa della salute della
figlia, dall’altro la conforta ricordandole, dall’alto della sua esperienza
nel campo, di perseguire i suoi obiettivi con determinazione. Di particolare
impatto emotivo risulta il fatto che Gretchen, questo il nome della
protagonista, non riesce a concentrarsi se non col rumore della metropoli e
le poche ore che passa in casa sono per lei le più difficili. La ragazza ha
registrato i rumori della metropolitana ed utilizza una cassetta che
riproduce la stessa atmosfera caotica che vive durante il giorno. Apre tutti
i rubinetti, aziona ogni cosa che può produrre rumore e solamente in questa
maniera raggiunge un’apparente pace che le permette di concentrarsi.
Mettendo in scena questa pace rumorosa, il regista ci parla per ossimori di
una realtà contraddittoria, di un’ossessione che confina con la follia, di
una società che agli occhi del singolo finisce per non esistere. E’
importante notare il fatto che a Gretchen non importa di quelli che sono i
suoi rapporti col vicinato a causa del caos che riproduce ogni qualvolta
torna nella sua stanza. Il maestro non perde occasione per mettere a
confronto la fredda, geometrica linearità della struttura metropolitana
inquadrata in campi lunghi e totali, con i dettagli delle curve umane degli
occhi di Gretchen, della sua bocca, dei suoi occhiali, e soprattutto delle
sue mani che non trovano pace, sempre frenetiche sui fogli che vanno
passando sotto di lei uno dopo l’altro, scandendo così il passare del tempo
e la vita che la ragazza lascia da parte per coltivare la sua mania. In
questo modo vediamo una tranquilla ragazza qualsiasi sempre più da vicino
fino a condividere con lei minuti interi carichi di angoscia per non aver
portato a termine il “lavoro”. Si, perché da principio, pensiamo che per la
ragazza, il compilare parole crociate sia un lavoro. Ed ancora una volta il
regista riesce a parlarci per paradossi. Il lavoro inutile è quello che ci
viene comunicato, un freddo compilare continuo che se da una parte può
essere paragonato ad un qualsiasi lavoro da ufficio, dall’altra diviene
metafora dell’esistenza e le risposte che Gretchen trova alle domande che
qualcuno ha concepito, sono le risposte che cerchiamo tutti i giorni agli
interrogativi che ci si propongono. Ma tutto risulta non avere un senso e il
raggiungimento parziale dello scopo che la protagonista perseguiva non è
neanche motivo di esaltazione, tanto per lei, quanto per lo spettatore. La
mania sfocia nell’ansia e diventa ossessione e poi tormento, incubo,
paranoia e psicosi. La vita scorre e tutto ciò che ci rimane sono i ricordi
di un foglio a quadretti, una bella ragazza che compila parole crociate, e
tanto rumore assordante, continuo, inesorabile, fino alla fine. La noia è lo
stile di questo film. La noia che si prova a vivere in una società noiosa,
la noia che produciamo noi stessi con la nostre manie, con la nostra
mancanza di coraggio (la ragazza rifiuta di lasciarsi andare all’imprevisto
della storia con il ragazzo interpretato da Trevor Moore), la noia che è
dunque la nostra compagna di tutti i giorni. A cavallo tra un crudo realismo
ed una visione deformata del reale, Naderi costruisce un film molto scomodo
per lo spettatore: una perfetta metafora della realtà umana fatta di
ossessioni molte volte fini a sé stesse. Un film scioccante, sicuramente
unico nel suo genere e che non ha precedenti.
Voto:24/30
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