i malavoglia

di Pasquale Scimeca

con Antonio Ciurca, Giuseppe Frullo

Altri interpreti: Greta Tomaselli, Doriana La Fauci

di Marco GROSOLI

 

28/30

 

Sì, proprio loro, proprio quelli di Giovanni Verga. Solo che i tempi sono quelli attuali. Il giovane ‘Ntoni va un po’ di tempo a lavorare a Milano e sogna di diventare musicista. D’altra parte, però, la rassegnazione secolare che Verga ha tentato di raccogliere con la sua opere ci dice che i tempi non cambiano mai. La pazzia della mamma, la barca che viene distrutta, i debiti, la perdita della casa, l’amorazzo di Lia sono sempre gli stessi.

Abbiamo bisogno, allora, di un Malavoglia oggi, con tutto il suo sconsolato pessimismo fatalista? Eccome se ce ne abbiamo. Perché anche questo pessimismo, oggi, assume forme uguali a prima e allo stesso tempo diverse. Il giovane ‘Ntoni ha successo, riesce a fare quello che vuole fare. Ma (e non diremo come) gli serve solo a ristabilire tutto come era prima. Il pessimismo si apre, ma tutto quello che trova è la più secolare e petrosa delle immobilità. La provvidenza, il nome della barca dei Malavoglia, è proprio questo: ciò che dà alla Storia quei “colpetti” che la scuotono, sì, ma la scuotono in modo che tutto rimanda immobile.

Del resto, è il cinema stesso di Scimeca che si dibatte tra una caparbia ricerca del movimento e il trovare le sopravvivenze dei secoli direttamente sulla fisionomia immutabile delle cose. Il suo stile, sapientissimo e grezzo al tempo stesso, vuole essere tutto spalmato sul mare, sulle rocce, sulle reti, sulle facce, sulle rughe, sulle Apecar unico mezzo di locomozione della sfortunata famiglia, sugli interni umili. Il borgo siracusano dove si svolge la vicenda, e la sua gente, sono fortissimamente connotati nel senso di una specificità antropologica. Ma è tutto l’inverso della contemplazione inerte, del “mettere in posa il pittoresco”. È, al contrario, un cinema pervaso in ogni scena da un forte, efficace senso di dinamicità. La potenza della situazione non è “dispiegata” narrativamente, ma si infiamma nel bruciarsi repentino dell’azione, che si consuma subito nel suo darsi come apparente. E la stessa autenticità dei luoghi e delle facce si brucia nell’azione nel momento stesso in cui ci viene offerta. È un cinema che fa trovare al testo quello stato brado, grezzo che la prosa di Verga del resto cercava dichiaratamente. Un cinema spigoloso, secco, diretto, teso, che piazza la macchina da presa sempre nel punto in cui capta delle forze in conflitto che si agitano confusamente, spesso in medias res.

Già: l’osservatore. Solo l’osservatore può dare conto di questo mondo senza tempo in preda alla natura. Ma non può giudicare. Questo si dice nel prologo verghiano ripreso all’inizio del film. Ma lo dice un ideale “cantastorie” munito di tamburo sugli scogli, pressoché interamente coperto dal frastuono delle onde e del vento, ripreso da una malferma telecamerina digitale. L’osservatore/narratore sta lì, ma quello che guarda conta meno delle forze da cui è attivamente sballottato e scosso.

 

06:09:2010