MAGHI E VIAGGIATORI

di Khyentse Norbu
Con: Tshewang Dendup, Sonam Lhamo

presentato a VENEZIA 2003

di Gabriele FRANCIONI


Fabula delicata sulle tentazioni della modernità e della alterità da sé intesa come fuga dalla Tradizione e dal rispetto del Passato, MAGHI E VIAGGIATORI è quel Lontano Oriente che vive all’ ombra di una cultura millenaria vista come grande albero dalle fronde protettive, alternativa al meticciato culturale hongkonghese e alla deriva morale (e politica?) cinese.
Khyentse Norbu, figura di grande rilievo anche in ambito religioso, assistente sul set de L’ULTIMO IMPERATORE, dispensa saggezza e parsimonia visiva, dall’ alto di una meditatività raccolta ma non ostile a brevissime escursioni immaginifiche nei territori della CG, pur non doppiando il riuscitissimo esordio de LA COPPA (1999), variamente premiato. Confinata la propria arte narrativa entro lo schema asfittico del confronto sbilanciato tra exemplum vitae – la rievocazione di un episodio tratto dalla tradizione orale – e perdizione in fieri del protagonista Dondup – in fuga dall’ inerpicata arretratezza del proprio villaggio e diretto in America - il monaco-regista non riesce a mettere in fibrillazione i due piani narrativi, lasciandoli procedere entro una vaga forma di sospensione e di reciproca indifferenza.
Da una parte il tratteggio, ai limiti del comico, di Dondup come improbabile cross-over potenziale tra origini da eremita e vocazione metropolitana ( ingenuo e un po’ irritante l’ ostinato soffermarsi sugli sneakers griffati, mossi a tempo di rock, ma di un rock inesistente e scovato chissà dove, per non dire dei manifesti appesi nella stanza ); dall’ altra il respiro di una fiaba persa nel senza tempo e che occupa sempre maggiore spazio all’ interno del film.
Tanto didascalica la prima - che vede incontrarsi sulla strada per la città (e per la fuga) figurine esili e appena accennate, come il monaco narrante, il venditore di mele, il vedovo con figlia studentessa, tutte messe in parallelo senza che scatti l’ ingaggio – quanto poetica la seconda, forse pensata in origine come film compiuto.
Tashi, che ne è il protagonista, vaga in preda agli effetti di un trip allucinogeno nella foresta mentale che è metafora della propria perdizione. Studente svagato di arti magiche e desideroso di viaggiare, viene messo alla prova dall’ incorrotto giovane fratello, mescitore di un infuso degno dei cocktail ginsberghiani, seppur a base di sole erbe. Costui intende fargli esperire la disperazione indotta dalla mancanza di una meta, laddove il villaggio paterno è un sottinteso e implicito approdo. Tashi, in effetti, viaggia, e diventa stanziale quando un cavallo immaginario lo traghetta alla dimora morale del passaggio alla vita adulta. Come nella cornice di una fiaba a scalini, la tappa della casa in legno sperduta nel bosco prevede l’ esperire il sesso sconosciuto, ma secondo una facies adulterina (egli desidera e possiede la giovane e bella Deki, finita in sposa a un vecchio gnomo geloso e conseguentemente misantropo) e quindi sbagliata, maledetta. Tra panoramiche a raggio ristretto sull’ ampia ma fosca natura selvaggia, gallerie intense di primi piani e cesellati dettagli dell’ attività manuale che scandisce il tempo, il film è in attesa del punto di svolta (l’avvelenamento del vecchio), ma ha ormai definitivamente dimenticato il suo doppio innecessario, ovvero la parte contemporanea.
Forse è un limite intrinseco di ogni parabola in chiave moderna, di ogni esposizione a tema, che attinge alle proprie sottintese affermazioni apodittiche come ad una fonte dispensatrice di equilibrio e chiarezza solo se lasciata sola e non appesantita da altro.
La redenzione di Dondup/ Tashi - dopo estenuante attesa di un autobus verso la libertà che non arriva, e alla fine dell’effetto-peyotl generatore di un mondo di tentati assassinii e disperati autoannullamenti (Deki si getta nel torrente) - è atto dovuto e non parto ragionevolmente sofferto di una complessa estrinsecazione del senso. Restiamo anche noi sospesi, del tutto dimentichi dell’ intento originario del regista, in attesa che il racconto e la voce del monaco, semplicemente, riprendano da un momento all’ altro…
 

Voto: 24/30

23.04.2004

 


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