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Lung Neaw visits his neighbours di Rirkrit Tiravanija documentario |
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“Preferisco respirare, piuttosto che fare arte!”, affermava Marcel Duchamp. Tiravanija, artista relazionale occupato a non occuparsi della componente Tempo nel suo lavoro, la pensa esattamente come il padre del ready made. Girare un film - per lui - è come mettere in rappresentazione, per così dire, la scorrevole fissità della vita e gli scambi tra gli umani. Ciò che affascina gli artisti visivi nella loro transizione verso l’immagine in movimento (è successo di recente a Shirin Neshat, Matthew Barney e Pipilotti Rist, per citare solo gli esempi migliori) è di solito proprio la componente tempo, ma poiché il thailandese nato a Buenos Aires la include direttamente nella sua opera pre-filmica, il passo sembra veramente breve e indolore. Il 20 gennaio eravamo alla Fondazione Bevilacqua La Masa per condividere l’esperienza di “Chew the Fat”, documentario colloquiale di Tiravanija su una generazione discontinua di artisti, da Cattelan a Douglas Gordon, da Dominique Gonzalez-Foerster a Tobias Rehberger, Carsten Hoeller e Liam Gillick. Poche settimane fa abbiamo visitato l’ambiente da bar ricreato con installazione e fotografie alla Fondazione Prada, che riprende le linee della presenza di T. alla Biennale Arte del 2009. Non troviamo sostanziale discontinuità tra i media, semmai continuità nel cogliere la fenomenologia dell’istante ripetuto all’infinito, quindi coerentemente tradotto in scorrevole fissità dell’immagine-tempo. “Il tempo non aspetta”, occorre stargli dietro, come accade nel biopic di Gordon su Zinedine Zidane, pedinato tautologicamente dalla m.d.p. per i 90 minuti canonici della partita, più l’inevitabile extra-time di 4 minuti. Lo sguardo di R.T., in LUNG NEAW VISITS HIS NEIGHBOURS, è rigorosamente esterno e non incline alla costruzione di un qualsivoglia universo immaginifico, come invece, tramite la convocazione dello “spirito”, fa Weerasethakul (amico del regista di LUNG NEAW). è la medesima differenza che notiamo, in ambito relazionale, tra lo stesso Tiravanija e Gonzales-Torres, pregno di una narratività simbolica da cui il thai è immune. O tra la minimal art degli anni Sessanta e il concettuale caldo degli anni ’10 (si veda “Personal Structures”, evento collaterale della Biennale Arte 2011). Le differenze rispetto al regista di TROPICAL MALADY sono chiare: Tiravanija predilige il quotidiano con la sua microstoria e il fluire orizzontale degli eventi, mentre Apitchatpong attraversa verticalmente anche il tempo-storia, il passato. Il primo, poi, si concentra sull’umanità che chiacchiera, il secondo sulla Natura silenziosa. Il “gioco di una vita simulata” realizzato grazie all’uso di attori (A.W.) diventa vita e basta, come in questo lungo, ipnotico lavoro che si avvicina alle 3 ore. Il problema è che la presenza –fuori campo- di una realtà ingombrante e concitata, per quanto solo evocata, per contrasto, risulta più visibile, immaginabile dallo spettatore della sovraesposizione dell’umile Lung. Il raccoglitore di riso che si gode la pensione in un villaggio tailandese NON è uno degli artisti di “Chew the Fat”, di cui sappiamo tutto, ma un personaggio che dovrebbe disporsi in maniera concava rispetto al nostro desiderio scopico, che invece viene paradossalmente deviato o rimbalzato dalla m.d.p.. Il convitato di pietra del documentario citato sono gli artisti non presenti, come Cattelan, a noi noto, mentre qui ci sfuggono sia la materia diretta che quella suggerita, cioè sia il contadino e il suo semplice/complesso mondo sia la modernità cui implicitamente viene contrapposto. Desidereremmo sapere di più, avvicinarci anche con la mente, mentre rimaniamo distanti, NON messi in relazione con altro dalla nostra coazione voyeuristica a farci decalcomania dello scorrere delle immagini. Questa affermazione di una distanza, per un artista relazionale, è estremamente grave e preoccupante. Come osserva correttamente Marco Grosoli per lo ZIO BOONMEE di Weerasethakul, “La vita è la polaroid degli squilibri del karma (…)”. Per Tiravanija diremmo che la vita è semplicemente una polaroid. Gli unici atti di deliberata “regia” sono rintracciabili nella disposizione d' inserti di nero tra segmenti del film, accompagnati da sottotitoli, e quella di privare di sottotitoli sezioni dialogate. La scelta di rendere significante l' assenza d'immagini e inaccessibili porzioni di dialogo, però, invece di costituire alto ragionamento sulla funzione del cinema, non fa altro che ribadire la precarietà di questa installazione in movimento, che rimarrebbe identica a se stessa anche se non fossimo in grado di capire alcunché del ronzio del logos cui ci siamo autocostretti per più di due ore.
09:09:2011 |
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