Al di là della iattura di avere come protagonista Nicholas Coppola Cage, la
faccia facciosa tanto amata dal pubblico statunitense medio, LORD OF WAR
riesce a trattare con sufficiente destrezza il tema del traffico d’armi.
Niccol (GATTACA, SIMoNE) deve aver sentito il peso delle critiche verso
un’immagine stilizzata fino all’inverosimile e sporca la m.d.p. come mai gli
era successo, sgranando, movimentando, accelerando.
La cosa, però, gli riesce solo per tre quarti del film: poi, ahilui, una
bara molto di design trascinata da uno stilosissimo tapis-rulant in
aeroporto disegnato - si fa per dire - da Philippe Starck, suona il
campanello d’allarme.
Non siamo dalle parti del film con Ethan Hawke, la Thurman e Jude Law
carrozzellato, ma certamente la guerra e il marcio globale nascosto tra le
pieghe dell’oscena neoglobalizzazione Made in bush (e ovviamente pre-bush)
richiederebbero un impatto visivo complessivamente diverso.
Trattasi di horror, laddove la materia di cui si discute è peggiore di
qualsiasi perversa fantasia gotica. Che ne avrebbero fatto Romero, Carpenter
o anche un Neil Marshall? Si sa, loro sono “registi di genere” e, in quanto
tali, vanno relegati nell’hortus conclusus che li vede invecchiare al
ritmo, ahinoi, di un film ogni lustro, se non peggio.
Dobbiamo accontentarci di LORD OF WAR, sincera denuncia dell’Impero del Male
delle armi leggere, al soldo del quale lavora il Sottoimpero del Male:
l’America.
Ma lo si dice a bassa voce e un po’ tardi, anche se in modo duro e ad
effetto (“in cima a questo sistema c’è il vero capo del traffico d’armi, il
presidente degli Stati Uniti (…)”), quando Cage preconizza la propria
immediata scarcerazione davanti all’impotente Hawke, che ha speso una vita a
rincorrerlo per il globo. Al Qaeda, è noto, ha fatto affari con bush per
decenni attraverso la famiglia Bin Laden e Saddam è un vecchio compagno di
giochi dai tempi del videogame Iran-Iraq: per cui, volendo, chiamiamo pure
Osama il Sottosottoimpero del Male.
Dobbiamo accontentarci, e lo facciamo di buon grado, perché è meglio questo
film del nulla e del silenzio omertoso e connivente di governi “portatori
pace” (oltre agli yankees, la Gran Bretagna del fantoccio Blair, il
Giappone, la Francia, elencati in coda alla pellicola come massimi
produttori d’armi odierni) e della stampa allineata, capace di storpiare la
realtà in nome di accordi tra industriali-capi-di-stato che usano il potere
e la gente - leggasi “soldati” - per interessi privati innominabili.
Ma andrebbe raccontato al cinema anche il silenzio della gente comune, che
fa spallucce e si beve le fandonie di mille tg berlusconiani, ignorando la
Realtà Vera: quel nano piazzista inquisito e l’idiota che ne accetta gli
inviti in Sardegna (il petroliere bush o Putin uguali sono) usano milioni di
persone e le risorse pubbliche per sanare o far prosperare le proprie
impresucce.
Come? 1) vendendo il proprio petrolio texano e quello rubato all’Iraq a
tutti i paesi assetati di materia prima, cosa che necessita, ohibò, di
guerre per conquistare i pozzi d’oro nero, e quindi di armi e infine di
dittatori-fantocci inventati e messi sul trono - Rehza Pahlevi, Saddam etc.
- per giustificare le proprie malefatte; 2) indirizzando i soldi dello Stato
verso Mediaset, che nel ’92-’94 vedeva berlusconi a un passo dalla galera,
salvato ripetutamente da craxiandreottiforlani (CAF).
Sarebbe bene che tutti vedessero LORD OF WAR e leggessero Curzio Maltese su
“La Repubblica” (vedasi l’ultimo “Venerdì”): il popolo de-culturato dalla tv
degli ultimi vent’anni, come sostiene Maltese, forse comincerebbe a capire e
ad aprire gli occhi, guardando in faccia la suddetta Realtà Vera.
Lo squallore dei reality - Grande Fratello, mai titolo di
trasmissione fu più profetico! - è duplicato dalle fiction spegnicervello
che hanno infettato anche l’universo dei segni cinematografici, pieno di
primi piani lacrimosi e campicontrocampi buoni per le anime semplici, troppo
semplici.
La Reality, poveri loro, non è piena di fattorie e isole di ripugnanti
ex-famosi degni dell’oblio, ma zeppa di corpi dilaniati dalle granate.
La Reality è quella descritta in LORD OF WAR, dove sparare a un bambino per
gioco è diretta conseguenza della massima in base alla quale “il Male vince
sempre, vince comunque”.
Dobbiamo amare questo film “a prescindere”, sostenerlo al di là di ogni
osservazione estetica e superando il fastidio verso l’escamotage utilizzato
per poter essere prodotto e distribuito: il protagonista è figlio di un
ucraino emigrato in Usa e il racconto ha il suo centro negli anni Ottanta e
Novanta, tra Libano e, soprattutto, Africa.
Come dire che, se spostassimo tale centro nel Duemila, tra Afghanistan e
Iraq, o nei Fifties-Sixties, in zona coreano-vietnamita, qualunque
produttore ti riderebbe in faccia.
Cage-Yuri inizia la propria carriera quasi per gioco, a ridosso di
Perestrojka e fine della Guerra Fredda. Interi arsenali d’armi in Ucraina
cadono nelle mani di militari svincolati dal controllo statale, tutto viene
privatizzato - eufemismo -e una fetta di mondo post-comunista finisce in
mano ai delinquenti. Il protagonista, americano di Little Odessa e nipote di
un qualche generale o colonnello in addiction da vodka e potere, viaggia
verso la madrepatria e il porto di Odessa. Compra a sottoprezzo dallo zio e
rivende i kalashnikov sovietici in Africa, a dittatori rozzamente sanguinari
come Baptiste. Le ossa se le era fatte in Libano, nell’82, ma i grandi
affari vengono messi a segno a partire dall’83.
La pellicola segue anno per anno l’“ascesa verso gli inferi” del Signore
delle Armi, contrapponendo i piani del racconto privato (gli affetti, la
famiglia, l’appartamento a Manhattan), guidato da una regia più vicina ai
lavori precedenti e funzionale alla descrizione del lusso, e del racconto
“pubblico”dell’attività di Yuri, in stile THREE KINGS.
Il ritmo è serrato, non c’è tempo per commuoverci: dobbiamo concentrarci
sull’Orrore in azione.
Esso è onnivoro e si basa sulla delega: incarico te di vendere a Tizio, che
rivende a Caio. La colpa non macchia la coscienza di chi fa affari, racconta
Yuri al fratello Jared Leto, idealista un po’ stereotipato e dimenticato per
lunga parte del film, all’interno del quale vaga con bottiglia e cocaina
d’ordinanza.
Ma forse questo schematismo nel tratteggio, ivi compresa la moglie,
ex-modella superlusso strappata dai cartelloni pubblicitari (SimONE?) e
messa nel freezer emotivo del loft newyorkese, è funzionale alla descrizione
di un mondo effettivamente costruito sulla parcellizzazione, la non-osmosi
fra i tessuti di cui è composto, l’occultamento dei sentimenti e il
mascheramento complessivo del reale. Azioni et Emozioni, egualmente rimosse
dalla Visione, giacciono intenzionalmente nel backstage del racconto, che
espone solo materia interstiziale: i contatti coi potenti, i viaggi, la
vendita. La guerra e l’amore non vanno visti, per surplus di realtà la prima
e per eccesso d’irrealtà il secondo, di fatto inesistente. La famiglia è
infatti l’ennesima copertura, come dimostra il self-control di Yuri dopo
l’assassinio del fratello ribelle nella calura sabbiosa della Liberia di Baptiste o durante il faccia a faccia con Hawke.
Il protagonista sa di essere rimasto solo, produce persino una descrizione
della propria condizione: ma è pura autocoscienza del Male, inarrestabile,
in-sensibile, non caldo, non freddo.
La temperatura e il cromatismo del film sono infatti fermi a metà: un grigio
color canna di fucile, che esce dai bordi delle immagini
urbane (esterni e interni) e invade, raffreddandola, la parte africana della
pellicola.
Solo la descrizione del trip indotto da una dose di cocaina mista a polvere
da sparo (!) tende verso qualcosa di diverso, ma sa di artefatto, nel
momento in cui Niccol si produce in una poco convincente rappresentazione
dell’incubo allucinatorio.
L’universo di underdog baraccati, bambini senza braccia e prostitute
veicolanti Aids, potrebbe essere stato filmato da un Soderbergh qualunque e
non da un Terry Gilliam.
L’insieme del film, comunque, regge e il senso ultimo del racconto viene
consegnato alle efficaci e scarne battute finali.
Voto: 26/30
28:11:2005 |