
UN POMERIGGIO DI UN GIORNO DA CANI è forse il massimo esempio di contaminazione
tra genere drammatico e una precisa sottocategoria interna al modello
narrativo del gangster movie: il “film di rapina”.
La grandezza di una pellicola che pretende di reggersi sul racconto di
una sola situazione in evoluzione seguita in tempo reale –la rapina- e,
in più, di rendere espliciti determinati contenuti altrimenti non presenti
nel cinema di genere, sta nell’utilizzare gli strumenti della narrazione
al fine di farci intuire, appunto, il genere come semplice contenitore,
privato di molte delle costanti stilistiche che lo caratterizzano. Permettendoci,
in tal modo, di concentrarci sui significati o sulle storie
– in quel caso il rapporto omosessuale [siamo nel 1975] in cui è coinvolto
Al Pacino – utilizzando dei significanti anomali per un certo tipo
di cinema.
Il che significa tempi e ritmi
assolutamente dilatati, dialoghi al centro della scena, attenzione al
dettaglio psicologico dei due o tre personaggi principali, ambientazione
che aderisce a quel tratteggio e pochi tagli di montaggio.
Cose che, quindi, non ci aspetteremmo da un film sulla situazione-rapina
tradizionalmente , e convenzionalmente, intesa.
Analogamente, LIBERTY STANDS STILL vorrebbe raccontare altro, ovvero
l’orrore del mondo dei mercanti d’armi statunitensi, seguendo l’evolversi
delle vicende legate a un cecchino e al suo ostaggio, tenuto sotto controllo
dalla finestra di uno stabile di Grace, Los Angeles, il tutto, anche qui,
nell’arco di un solo pomeriggio.
Il cecchino, ex-trafficante, è in realtà la vittima, poiché ha perduto
la figlia durante un viaggio “d’affari”, colpita da un’arma prodotta dal
suo boss, la cui moglie tiene ora sotto tiro per vendetta.
Il problema è che la pretesa di comunicarci un messaggio assolutamente
positivo, ovvero la denuncia dei rapporti tra politica altissima e cosiddetti
fabbricanti di morte, intrecci che da soli motivano i conflitti in atto
nel pianeta, rimane tale, cioè intenzione e scarsa realizzazione, poiché
veniamo costantemente distratti da una regia sovraccarica, che usa accelerazioni
e rallentamenti in modalità per così dire asincronica rispetto allo sviluppo
degli eventi: appena sembra che si aprano varchi di affabulazione meditativa
all’interno di un testo spesso inessenziale e freneticamente recitato,
ecco che la m.d.p. incalza la donna – Linda Fiorentino, invecchiata e
un po’ fuori fase- con primi piani sgranati da real tv, sempre
più ravvicinati, per poi abbandonarla subito perché dobbiamo verificare
l’effetto delle parole di lei [una confessione privata, un breve momento
di debolezza per una persona cinica e indifferente al semplice concetto
di dolore] su Wesley Snipes, ripreso da sotto, di lato, da dietro e appena
abbiamo cominciato ad interessarci a tali confessioni, subito si passa
alla polizia che disordinatamente interviene.
Inconcepibile, in definitiva, che una materia così nettamente definita
in partenza, da cui poter ricavare uno scarno film-denuncia da New Hollywood
anni ‘60, possa essere polverizzata in una tale, infinita serie di deviazioni,
scarti e deragliamenti rispetto alle premesse.
La storia manca di precisi raccordi narrativi, da cui il disorientamento
dello spettatore. Non motiva a sufficienza l’atto di partenza del protagonista,
che vendica la figlia con una strage ambigua -poiché finisce paradossalmente
col giustificare la detenzione privata di armi e l’uso della vendetta-
solo funzionale al fatto di dover puntellare i cento minuti del film con
un numero adeguato di ammazzamenti. Manca di ritmo perché dispone senza
criterio, e con uno sbilanciamento verso quello principale, le scene relative
ai tre contesti presi in esame [il parco dove si trova Liberty Wallace,
il teatro in cui anche l’amante della Fiorentino è tenuto in ostaggio,
gli uffici di Oliver Blatt, il marito], sì da farci dimenticare, di tanto
in tanto, i personaggi ad essi legati.
Stessa cosa dicasi per l’uso tutto visuale dei brevissimi flashback, esornativi
e non esplicativi, sbilanciati verso la seconda “sezione” del
film, ad antefatto ormai noto.
Occasione sprecata, che offrirà il pretesto per affossare il film a causa
del suo fallimento estetico, ad una critica prevenuta e sospettosa
nei confronti di un cinema civile e schierato.
Voto: 24/30
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