Si parte subito
con la sequenza più bella del Festival, gli scontri del Maggio '68 in forma
di elegia, lunga, in notturna, senza musica, senza aderire a un punto di
vista preciso, tutta campi lunghi, sguardi che si perdono nel vuoto, dolenti
carrelli laterali che disintegrano l'azione (pur violenta) in un'oggettività
attonita e impotente, allucinata e confusa.
Un elegia dunque: d'altra parte il giovane protagonista (Louis Garrel) è un
poeta, o sedicente tale. Ma niente allori in testa:
Les amants reguliers rientra
a pieno nella tendenza dell'ultimo Garrel a mettere pubblicamente in
ridicolo la propria stessa velleità poeticizzante (si veda Sauvage
Innocence, storia di un regista involontariamente carnefice per via
della propria presunzione), e si conclude col poeta che, di punto in bianco,
muore sognando e, dice la
voce over,
senza nemmeno rendersi conto di morire.
Sogna un idillio arcadico, appunto
naif
fino all'imbarazzo, con la ragazza che aveva conosciuto, amato e lasciato
andare senza il minimo scossone, incapace di svezzarsi dalla trama liquida
di sguardi, scintille sensoriali subito spente, complicità malferme, che è
l'amore, la convivenza... e il cuore stesso della messa in scena di Garrel -
entrambi nella loro più evidente evanescenza. Garrel insomma confessa
l'incapacità "immatura" di abbandonare le illusioni per fragilissime e
inconsistenti che siano: in questo senso gli scontri iniziali (la tomba
dell'utopia sessantottina) più che una funzione strutturale costruttiva
servono a gettare un'ombra sinistra, pessimista sull'intreccio di aurore
sentimentali e "ripieghi-nel-privato" che seguono. Non si è mai veramente "dans
la rue" (e qui si innesterebbe il discorso su Bertolucci, esplicitamente
citato), così come le illusioni e i sogni di altro genere possono solo
restare a un innocente stato larvale (meravigliosamente compreso e
restituito dalle luci di Lubtschanky) cui Garrel sembra sempre, per fortuna,
ostinato a rimanere aggrappato, nella lucida (politica, verrebbe da dire)
consapevolezza che il Denaro arriva comunque ad annichilire tutto (suo tema
costante fino all'ossessione, qui incarnato dal facoltoso scultore che
"ruba" la ragazza al poeta), come fosse veramente il Fato onnipotente posto
a guardia della tragicità del nostro presente. Contro di esso, Garrel rimane
attaccato alla nebulosità impalpabile delle illusioni (politiche,
amorose...) ma contemporaneamente (ed è questo che ne fa un genio) le copre
col proprio sudario (il bianco e nero...), le ammanta di tutta la loro
improbabilità, imprendibilità, fragilità. La sovrapposizione miracolosa,
destabilizzante, del lirismo e della propria autocritica.
Voto: 29/30
05/09/2005
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