VENEZIA.66

 

lebanon

di Samuel Maoz

Israele 2009, 92'

 

VINCITORE DI VENEZIA 66.

 

30/30

Lebanon ci accoglie e ci congeda con un campo di girasoli accarezzati dal vento, quasi protesi a cercare quella luce che invece manca per tutta la durata del film. Saranno le uniche scene in esterno, prima di essere calati nella dimensione buia e claustrofobica del carroarmato insieme a Shmuel, Assi, Herzl e Yigal, equipaggio del Rinoceronte, incaricato di ispezionare una cittadina già bombardata dall’esercito israeliano. è il 1982 e si sono appena aperti i conflitti della prima guerra in Libano: Samuel Maoz, ventisei anni dopo, svuota nella pellicola la sua memoria straziata dall’esperienza di quella notte in cui, come artigliere di quel Rinoceronte, uccise un uomo.

Una memoria ricostruita tanto dolorosamente quanto amari furono i fatti stessi: andando a rievocare l’inferno di quella notte, il regista ci proietta direttamente nel caos sensoriale di esplosioni, lamiere bombardate, vertigine, caldo, senso di soffocamento e paura che attraversarono lui e i suoi commilitoni in quelle ore di terrore, quando tutto, anche la morale, viene annientata in nome dell’istinto innato di sopravvivenza che ti porta a uccidere. Ed ecco che, grazie a close-up estremi, siamo a fianco a Shmuel quando non ha il coraggio di premere il grilletto, vediamo il terrore nei suoi occhi e il suo sudore scendere. Siamo con loro nell’umido, nella sporcizia, tra mozziconi e lattine, ridiamo dei loro racconti d’infanzia e vorremmo pigiare l’acceleratore con Yigal per tornare a casa il prima possibile.   La guerra non si vede, ma c’è, solo che non è lo spettacolo macabro che siamo abituati a vedere sullo schermo: la guerra che vediamo noi è la stessa che vede (e ha visto) Shmuel dall’occhio del mirino, attraverso uno sguardo meccanico limitato dai movimenti pesanti del gigante di ferro.

 “L’uomo è d’acciaio, il carroarmato è solo ferraglia” reca una dicitura all’interno del blindato, quasi a ricordare che il vero scudo dai pericoli esterni risiede nel soldato stesso, piuttosto che nella macchina. In fin dei conti, nessuna delle due affermazioni è vera: i quattro soldati non sono d’acciaio, sono ragazzini caricati su una macchina di morte, allo stremo delle forze, coi nervi tesi, ma che continuano a lottare solo per istinto, rincuorati dal calore dei ricordi di un mondo esterno lontano dal campo di battaglia. Neanche il Rinoceronte è solo ferraglia: come un quinto soldato lo vediamo trasudare e sbuffare, logorarsi e quasi arrendersi nell’ostinarsi a non ripartire, ma alla fine, sebbene gravemente “ferito”, si scaglia su edifici e ruderi e porta in salvo i suoi compagni, riaccompagnandoli al campo di girasoli che ormai sembrava uno scherzo della memoria.

Un film come terapia, per tentare di alleviare le profonde ferite dell’anima inflitte dalla guerra. Ad inizio anno, anche Ari Folman cercava sollievo dalle pene della stessa guerra di Maoz, proiettando sullo schermo la ricerca della memoria di quei giorni, una memoria ferita che tenta di nascondersi per non fare più male. Entrambi hanno l’accortezza, o la necessità, di esorcizzare quei ricordi di sangue dissimulandoli allo spettatore attraverso espedienti tecnici: in Walz with Bashir l’animazione ci concede il distacco da una realtà troppo cruenta, in Lebanon il mirino del carroarmato come macchina da presa consente di sentire, senza necessariamente vedere tutto.

Stupisce questo film di guerra in cui la guerra non si vede, ma si capisce: coinvolge i sensi e lascia che la mente rlfletta, sgombra dalle immagini di efferata violenza di cui siamo assuefatti.

 

12:09:2009

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Venezia, 02/12 settembre 2009