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LA CLÉ DES CHAMPS di Claude Nuridsany e Marie Perennou con Simon Delagnes, Lindsey Henocque, Jean-Claude Ayrinhac |
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01/30
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Still lives: not a festival for wrong hands
Tutte le immagini che il cinema ci presenta, in quanto implicate nel movimento e quindi nel tempo, “impronte della durata” (Bazin), a prescindere dalla bruttezza o dalla bellezza di ciò che mostrano, sarebbero sempre immagini di morte in quanto agiscono l’atto di congelare il continuum, rendendo eterne le contingenze del divenire, bloccando il panta rei e raccontando una successione di fini. L’arte del documentario, quando tratta di degradazione sangue guerra fango sofferenza depravazione, ribalta tale premessa, perché non si può dare una “morte della morte”: mostrare ciò che è già finito o è negazione di vita è, semmai, l’opposto, cioè una possibilità di rinascita, l’indicazione di uno spazio stretto ma aperto tra il nulla e il qualcosa. Amiamo, quindi, il documentario quando (ri)attiva una realtà morta, non quando cerca di immortalare le bellezze di Natura, non perché ci siano nemiche queste ultime, ma in quanto riteniamo film tipo Microcosmos, i cui autori sono proprio Perennou e Nuridsany, il peggior atto necrofilo che si possa agire nei confronti di entità dotate veramente di pulsione infinita e d’inarrestabile eterna purezza lanciata ad infinitum sulla freccia del tempo. Esse non chiamano il cinema, che, ove convocato, è l’intruso di cui occorre liberarsi. La presunta sete di superverità analitica e macro-ottica soddisfatta grazie all’uso di lenti e obiettivi che scrutano entro microcosmi inattingibili, è in realtà la mannaia che cala sui piccoli insetti, tranciando di netto quella linea temporale infinita e mettendo il belletto sui cadaveri di nature morte. LA CLE’ DES CHAMPS, una specie di romanzo di micro-formazione a cura del Discovery Channel in salsa gallica, appiccica la storia di un bambino pre-pubescente (il narratore) agli eventi invisibili del mondo naturale. Mandato a stare presso i cugini, il ragazzino (muto, nel senso che non parla mai) preferisce ambientarsi nei pressi del lago Idle, che in realtà è la regione di Lazarc, vicino alle zone meridionali del Massif Central. Nonostante l’arrivo di un’interessante bambina dotata di vestito a pois, l’attenzione del protagonista si fissa sulle movenze antropomorfe di animali che si agitano sopra e sotto il pelo dell’acqua. Mentre la m.d.p. titilla i sensi e i due giovani umani si rifiutano di proferir parola, osserviamo crudelmente come il documentario commetta due gravissimi errori: a) lascia, appunto, muti gli esseri viventi (come, in parte, nel fictionalissimo TWO BROTHERS) e b) elimina ogni sonoro raccolto in presa diretta, che viene sostituito dalla collosa colonna sonora di Bruno Coulais. Cosa potrebbe essere peggio di un simile complotto contro le nostre intelligenti risorse audio-visive, dono di Madre Natura? Cosa potrebbe, insomma, nuocere ancor di più ai nostri occhi e orecchie? La versione già doppiata in italiano (con tanto di soporifero voice over del protagonista, cresciuto e fattosi narratore delle vicende dell’infanzia), servitaci nel primo dopo-pranzo in una Sala Grande semivuota, ma piena di schiocchi, sciacquii e trilli provenienti dalla zona dello schermo. Sic est: rimane difficilmente tollerabile e incomprensibile come operazioni di questo tipo possano passare alla rassegna veneziana.
09:09:2011 |
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