
Può darsi che una candidatura all’Oscar
per un film così sia un po’ troppo lusinghiera. Tutto sommato però
Kitchen stories è meno
scialbo di quello che le sue placide ambizioni di esile “cinema medio”
farebbero supporre. Lo spunto è accattivante: un villaggio norvegese
che negli anni '50 viene invaso da una torma di ricercatori svedesi
incaricati di analizzare le abitudini culinarie dei single; uno
degli studiosi dopo le prime diffidenze instaura una bella amicizia
col single oggetto del suo lavoro. Lo sviluppo è diseguale ma
inventivo, vivace. Inizialmente ci illude con un mood
inequivocabilmente da commedia garbata, leggera, equilibrata. Poi,
ahimé, il tono si arrende a corde prevedibilmente smielate, certo con
grazia e pudore, ma sentimentali nel modo più facile.
Resta il fatto che la parte più comica è passabilmente riuscita. Tutto
il paradosso della situazione (il ricercatore che spia con
imbarazzante ossessività ogni minimo movimento del single
appollaiato su un trespolo in un angolo della cucina) viene sfruttato
a dovere ma senza forzare. Si avverte un senso della gag interessante,
grazie soprattutto al montaggio e all’uso accorto dello spazio che
riesce ad “aprire” un set asfittico come la cucina del coprotagonista:
il loro uso combinato riesce molto spesso a spiazzare. Il risultato è
di discreta efficacia, e dà freschezza a spunti comici abbastanza
gustosi.
Hamer conduce il film a pennellate lievi, con mano pacata. Ha il
merito di sembrare sempre un po’ in disparte rispetto a ciò che gira;
la sua, cioè, è una regia che, più che metterli in evidenza, “addìta”
trasognatamente gli elementi che di volta in volta fanno andare avanti
il film. Avverte, e riesce ad aggirare, quello che è il rischio
principale di film del genere, cioè un’esangue e pallida staticità. Ci
riesce rimpolpando il racconto in modo piacevole, anche se
costeggiando un po’ il gratuito. Così, non nega spazio a gustose
macchiette di contorno (il dottore che fuma, il boss svedese con
l’aereo-harem privato eccetera), a divagazioni non strettamente
necessarie (la vita schiettamente “da single” del ricercatore stesso,
con tanto di modesti pranzi fai-da-te, il cavallo malato, e
quant’altro), a tutto quanto possa allegerire e far respirare un film
sereno e senza scossoni come questo. Forse anche troppo, dato che lo
sbocco tragico (che non sveleremo non per evitare lo “spoil” ma per la
sua disarmante pochezza) in cui sfociano le complicazioni
dell’intreccio è più ridicolo che altro.
Insomma, a modo suo Kitchen
stories fa centro, ha un target medio che raggiunge piuttosto
in scioltezza ma senza perdere più di tanto in dignità
cinematografica. Ora rimane la curiosità di vedere cosa sarà capace di
tirare fuori Hamer da un progetto così lontano da questo come il film
su Bukowski che inizierà a girare ad Aprile.
DA CANNES 2003 ::: L'Altra Recensione :::
Voto: 24/30
12.01.2004
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