killer joe

di William Friedkin

con Matthew McConaughey, Emile Hirsch

e con Juno Temple, Gina Gershon

  di Marco Grosoli

 

28/30

 

Pereat mundus. Tutto il mondo, tutta l'umanità, può anche sprofondare all'inferno. Basta che sia salva la purezza.

Questo sembra dirci Friedkin, con la sua storiaccia texana di tradimenti e omicidi che dilaniano una famiglia di poveracci senza arte né parte, cui capiterà tutto il peggio possibile, attraversata da un angelo della morte, un poliziotto killer prezzolato a tempo perso (Matthew McConaughey, straordinario) innamorato di un angelo della vita, una slavata e ingenua adolescente, naif al di là di ogni immaginazione in una famiglia di squinternati che non la merita. Lei è pura perché immacolata, lui perché si è macchiato di così tanta sporcizia morale da ritornare, al termine della sua parabola di perdizione, nuovamente e paradossalmente puro.

Ma chi sta in mezzo, no, quelli non si meritano nulla. I mediocri beneintezionati che uccidono per il loro piccolo interesse, no, Friedkin quelli li disprezza senza alcuna pietà, così come in fondo disprezza il genere. Killer Joe si annuncia come un poliziesco (un giovane di provincia assolda un killer per uccidere la madre e intascare l'assicurazione, salvo incorrere in una valanga di complicazioni), ma del poliziesco si disinteressa sfacciatamente, liquidando l'intreccio relegandolo a qualche sbrigativa scena in esterno che gli permetta di concentrarsi per un tempo inusitatamente lungo e dilatato su quelle 3-4 scene di interni che tengono in piedi il film con la loro scatenata libido in semilibertà. La scena lenta, metodica, gagliardamente coreografata, in cui Joe svergina la ragazzina è forse la più indimenticabile di esse. In essa, si unisce una inflessibile e controllatissima orchestrazione degli elementi espressivi, e un compiaciutissimo piacere del controllo che trasuda da ogni inquadratura, e che inghiotte perfino l'ironia (presente in dosi massicce) nella sua lussuriosa serietà.

Fondamentalmente, Friedkin tratta la retorica Hollywoodiana come qualcosa di già definitivamente cristallizzato e imbalsamato in un repertorio di cliché espressivi da utilizzare freddamente (un esempio per tutti: il cane fuori casa che “commenta” con le sue espressioni e i suoi latrati i vari personaggi che transitano da quelle parti). Di questo repertorio, Friedkin calca energicamente i contorni: lo teatralizza, aiutato in questo da una pièce d'origine (di Tracy Letts, come per il precedente Bug) di cui conserva tutta l'artificiosità scenica del caso (a cominciare dagli stilizzatissimi dialoghi). E lo fa per ritrovare, nel punto più estremo di tutto questo manierismo, l'innocenza del piacere. L'eccesso del godimento che si avvinghia, come l'edera, là dove il linguaggio è perfettamente dominato, prevedibile, statico, inerte, formulaico. Joe che si eccita tremendamente quando gli viene praticata una fellatio finta con un osso di pollo all'altezza del pube al posto del suo pene. Anche questa è purezza.

 

09:09:2011