
Il conflitto
arabo israeliano non finirà mai, non alla luce di quanto si può vedere
in KEDMA, che ne narra l’inizio. Gitai racconta un episodio storico, il
ritorno in Palestina di alcuni sopravvissuti allo Shoah a bordo
della motonave Kedma, nel maggio del 1948, sei mesi dopo che l’ONU ha
deciso la divisione del paese in due stati, quello arabo e quello israeliano,
e una settimana prima che Ben Gourion proclami l’indipendenza dello Stato
d’Israele (dichiarata il 14 maggio del 1948): come sbarcano i superstiti
dei campi vengono loro malgrado arruolati nell’esercito clandestino israeliano,
il Palmach, e subito inviati a combattere contro gli Arabi. Nella
versione italiana è inevitabile che si perdano i vari linguaggi del film,
che nella versione originale danno ancora più significato alla precaria
fondazione dello stato israeliano e del momento storico coevo: si parla
l’ebraico, l’yddish, il russo, il polacco... e l’arabo, naturalmente.
Amos Gitai afferma di aver voluto fare un film sui profughi del 1948,
che appena sbarcati venivano inviati sul campo di battaglia ("Alcuni furono
uccisi meno di tre giorni dopo il loro arrivo senza che neanche se ne
conoscesse il nome" - Amos Gitai, tratto dall’intervista rilasciata nel
Press Book del film). Nello stile tipico di questo regista, la
pellicola è un continuo susseguirsi di piani sequenza, il montaggio ridotto
al minimo, anche nelle scene dell' assalto al villaggio arabo fortificato.
Ci sono due momenti di grande tensione emotiva nel film, e riguardano
l’uno lo sfogo del contadino arabo (Yussef Abu Warda, attore feticcio
di Gitai) e l’altro il monologo dell’ebreo Yanush, reso folle dalla guerra.
Due momenti lirici, che da soli valgono tutto il film. La pellicola in
sostanza segue due coppie di profughi dallo sbarco dalla Kedma alla partenza
verso Oriente, rappresentata dalla Gerusalemme sotto assedio: la prima
è quella di Rosa (Helena Yaralova), ebrea russa, e Yanoush (Andrei Kashkar),
ebreo polacco, perdutamente innamorati; la seconda quella del giovane
Menachem (Menachem Lang), idealista cantore di preghiere (nella versione
originale parla solo yddish) e della sua compagna. I due momenti citati
si trovano quasi alla fine del film, che non è consigliato a chi non ama
lo stile di Gitai o l’imperfezione di alcune riprese (qua e là comparse
che ridono e si nascondono il volto con il velo). Vale la pena di citare
i due brani quasi totalmente, perché se nel primo si leggono le motivazioni
che spingono gli Arabi a rimanere in quella che da secoli considerano
la loro terra, nel secondo (vero atto d’accusa di Ebreo tra gli Ebrei)
si trova quel senso di fatalismo che ha sempre accompagnato, e che sempre
perseguiterà, il popolo di Abramo. Eccoli, allora, in tutta la loro poesia:
il primo, urlato da Yussef Abu Warda, nei panni di un contadino a cui
il Palmach ha appena sequestrato il mulo. Il secondo, recitato
in un interminabile e disturbante piano sequenza da un terribilmente bravo
Andrei Kashkar, va a chiudere la pellicola, aprendo alla Storia.
Youssef (il contadino arabo): "Qui resteremo, qui, malgrado voi, fermi
come un muro! Non ce ne andremo mai! Avremo fame, saremo mal vestiti,
ma saremo sempre pronti a combattervi! Qui resteremo, malgrado voi, come
un muro! Scriveremo poesie, e riempiremo le strade con le nostre immense
manifestazioni… E i nostri bambini si ribelleranno generazione dopo generazione".
Yanoush (l’ebreo polacco): "Milioni di persone, un popolo intero che decide
di tuffarsi nella pazzia più totale! Va avanti da più di duemila anni!
Duemila anni, ci pensi? Che popolo incredibile! Che popolo… spaventoso!
Spaventoso da farti impazzire. E poi questa pazzia ci serve, a un solo
scopo sì, per credere nel Messia. Per un semplice mito. Ma senza questo
mito, sarebbe stato tutto diverso. Sarebbero di certo tornati in Palestina,
o in un qualsiasi posto, non importa quale… Avrebbero dovuto pensare ai
progetti per il futuro… per poter mettere fine a quest’incubo disumano".
Voto: 30/30
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