Tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Anthony Swofford, JARHEAD
(letteralmente “testa di vasetto”, soprannome affibbiato ai marine
americani) è un racconto di guerra sincero ed ironico come se ne vedono
pochi, narrato dal punto di vista di un giovane soldato spedito in Iraq ai
tempi della prima Guerra del Golfo che, pur mantenendo un certo distacco
meditativo sulla situazione in cui si ritrova, non riesce comunque a fare a
meno di venire coinvolto dalla retorica adrenalinica del corpo dei marine.
La vicenda comincia con l’arruolamento quasi dovuto dell’appena ventenne
Swoff (Jake Gyllenhall), e del successivo, massacrante addestramento che in
breve fa dubitare il ragazzo della saggezza della propria scelta. Ma non c’è
tempo per ripensamenti: nel frattempo il Kuwait, paese alleato, è stato
invaso dalle truppe irachene, e Swoff viene mandato d’istanza in Arabia
Saudita, in vista dell’ormai inevitabile conflitto. L’attesa è però più
lunga del previsto, e nel Deserto dei Tartari saudita le truppe, intente
principalmente a idratarsi e a masturbarsi il più possibile, sono logorate
dalla noia. Desiderosi di entrare in azione, spossati dal caldo e dalla vita
militare, tagliati fuori dal mondo “normale” e preoccupati per mogli e
fidanzate che sembrano dimenticarli troppo in fretta, i giovani marine
cercano di far passare il tempo fra partite di football, combattimenti tra
scorpioni e solenni sbronze natalizie. Una volta che il contatto con il
Nemico effettivamente avviene, gli uomini sembrano però tutt’altro che
preparati, e del resto hanno a mala pena il tempo di rendersi conto di
trovarsi in guerra: sono finiti i tempi della fanteria, al giorno d’oggi le
battaglie si vincono con la teconologia, e il più in fretta possibile. Così,
senza essere riuscito nemmeno a sparare, Swoff esce indenne da una guerra
cui non ha potuto veramente partecipare se non per “fare presenza”, come del
resto tutti i suoi compagni, e che in fondo non è riuscito davvero a
comprendere.
JARHEAD descrive con arguzia le differenti sfumature della vita del soldato:
l’eccitazione, lo straniamento, la solitudine, la rabbia e le amicizie
sincere. E lo fa fluttuando come Swoff fra un punto di vista distaccato,
analitico, e un punto di vista interno, coinvolto nella vicenda. Forse è
proprio questo il punto di forza del film di Mendes, il riuscire ad
appassionare senza abbandonare uno sguardo critico, e al contempo il
riuscire a far riflettere evitando però di astrarsi emotivamente.
Dei giovani marine sono mostrate le umiliazioni, i patimenti, così come
l’ardore, la brama di combattere e uccidere.
Fa di certo impressione vedere come il corpo dei marine inglobi fra i propri
strumenti di propaganda e motivazione un film sulla follia della guerra come
APOCALYPSE NOW, e come dinnanzi ad esso le reclute si esaltino e coltivino i
propri istinti bellici. E fa impressione vedere come tutto ciò che questi
aspiranti eroi proteggono siano solo pozzi di petrolio in fiamme (“La terra
sta sanguinando”, dice fra sé Swoff di fronte allo spettacolo dantesco del
suolo ricoperto da pece e vampe) e chilometri e chilometri di deserto.
Il deserto, per l’appunto. Pervasivo, invasivo (come nell’incubo in cui
Swoff si ritrova a vomitare chili di sabbia) e assoluto, domina ogni singola
inquadratura, penetrando nei corpi e nelle cose, nelle divise mimetiche e
negli autocarri, fino a farli diventare tutt’uno con ciò che è intorno. La
suggestiva fotografia del film ruota attorno a questo scenario statico
eppure mutevole, di volta in volta oceano di riflessi o arida distesa,
incentrandosi inevitabilmente sul colore delle dune e della noia, conferendo
all’opera un impatto visivo ragguardevole.
Solamente quando la guerra ha inizio si passerà dal Purgatorio color sabbia
del deserto saudita al vero e proprio Inferno dei pozzi petroliferi
kuwaitiani. Il cielo si fa nero di fumo, la terra di petrolio, e l’unica
luce a rischiarare le tenebre della guerra è quella demoniaca dei giacimenti
in fiamme. Nulla ha vita qui, le sagome carbonizzate dei fuggitivi
imbottigliati in un mortale ingorgo stradale sono statue di cenere, ormai
parte dello scenario inanimato del deserto; come su di una neve inversa, i
passi dei soldati lasciano impronte bianche sul pulviscolo nero che ricopre
la strada. Lo stesso cavallo ricoperto di petrolio appare più come uno
spettro in fuga dalla guerra, che come un animale in carne ed ossa.
E proprio quando la pellicola sfiora il sublime mostrando le truppe
disorientate in questi luoghi al di fuori della realtà, l’assurdità trionfa
negli improvvisi festeggiamenti per una guerra che dalla maggior parte dei
partecipanti non è stata nemmeno combattuta.
Il buon adattamento del romanzo da parte dello sceneggiatore William Boyles
(non a caso un ex-marine) e l’ottima prova di regia di Sam Mendes sono
suggellati dall’interpretazione del giovane Jake Gyllenhall, che mantiene le
promesse della sua precoce affermazione e regge su di sé buona parte del
film.
Drammatico, divertente, toccante, JARHEAD è un film da vedere non foss’altro
che per farsi un’idea genuina su quel che è stato il primo conflitto del
Golfo, e magari per riflettere su altre, ben più attuali, vicende.
Voto: 28/30
16:11:2005 |