
Lo scandalo così capillarmente meditato e costruito per quest'edizione
del Festival di Cannes è stato un clamoroso flop. Il film di Gaspar
Noé, infatti, più che scioccare o sconvolgere il pubblico
sottoposto alla visione delle più inaudite ed inaccettbili delle
violenze, infastidisce e disgusta per la gratuità ed idiozia della
mattanza celebrata nonchè per la mancanza assoluta di qualsiasi
giustificazione alla greve sostanza della pellicola in cui sfacciatamente
si esibisce e sciattamente si procede nella teorizzazione di una delle
più volgari e dozzinali ipotesi sulla natura belluina dell'essere
umano. La cosa migliore del film, infatti, è l'idea di un avvio
originale che parte proiettando i titoli di coda al contrario ed a lettere
invertite, assecondati da un accompagnamento musicale volutamente opprimente
e di forte impatto. Dire che la cosa migliore di una pellicola sono i
titoli di coda, naturalmente, non è commento facile ma, dall'inizio
della proiezione vera e propria fino alla fine non ci si può non
chiedere come un film del genere possa essere stato partorito da mente
umana e, soprattutto, come possa essere stato selezionato tra i titoli
in Concorso di un Festival prestigioso come il presente. Nessun talento,
nessun messaggio (tranne il banalissimo: "il tempo distrugge tutto"),
nessuna attesa, nessuna giustificazione, niente di niente per più
di 1h30 di martirio. Per i primi venti minuti siamo costretti ad immergerci
nel più assurdo degli incubi, brutalizzati da una telecamera che
non fa altro che roteare su se stessa senza mai fissarsi su un'inquadratura,
in un girotondo macabro e nauseante sullo sfondo dell'abiezione e degrado
di un ambiente che è molto più orribile di qualsiasi girone
dantesco mai raffigurato. Un effetto sonoro stridente, piatto ed ininterrotto
guida il nostro viaggio nel club omosessuale dal nome evocativo-simbolico
"RECTUM", alla luce di fioche lampadine ovviamente rosse, in
cui Vincent Cassel si getta come fiera assetata di vendetta alla ricerca
dello stupratore della sua fidanzata. I particolari sfiorati dall'occhio
della cinepresa sono spudorati come schiaffi e mostrano con violenza furbesca
una promiscuità che non alligna neppure ai livelli più infimi
dell'istintualità belluina. Scene di una brutalità inconsulta
vogliono dimostrare che l'uomo, per quanto animale dotato di razionalità,
è solo ad un soffio dal collasso verso la furia e che tutti gli
impulsi ricevuti dal mondo esterno non possono essere a lungo dominati
e finiscono col produrre la reazione prevaricatrice e distruttiva tipica
di un qualsiasi predatore. In accordo col titolo, la narrazione si svolge
in compartimenti stagni, secondo moduli che si susseguono l'uno all'altro
dall'ultimo al primo a disvelare qual è la normalità che
l'evento irreversibile va a distruggere per sempre, ad indicare, con crudele
ironia, qual è la catena che ha condotto ad un incidente fortuito
in grado di spezzare la vita delle persone coinvolte. La scena dello stupro
della Bellucci, paradossalmente, è la cosa meno orripilante e memorabile
del film: eccessiva per lunghezza ed esibizione, purtuttavia sa di artefatto
ed irrimediabilmente fasullo e, perciò, non ottiene il risultato
sperato di umiliare, assieme allo splendido corpo della protagonista,
anche la mente e la coscienza di chi osserva. La Bellucci, perfetta come
una statua, non comunica affatto la sensazione del trauma e, per quanto
si dimeni ed urli, sembra sempre pensare alla finzione messa in scena
e flirtare, pertanto, con l'occhio della telecamera che indugia su di
lei con compiacimento. Un finale scontato e fiaccamente moralista non
aggiunge nulla ad un film che non merita alcuna attenzione e che annoia
solamente quando pretende di prendere in giro chi va al cinema per assistere
ad uno spettacolo che significhi qualcosa.
Voto: n.c.
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