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Il ‘ribelle del cinema’, come è usa definirlo parte della critica, in questi ultimi tempi sembra incalzare un rientro nei ranghi dei figlioli educati. Da COBRA VERDE a INVINCIBLE, il tema del titano che duella con le forze della natura sembra afflosciarsi in finzioni di umore classico e la forza del suo talento selvaggio sembra impallidire nella soggezione di una materia non più autenticamente vissuta. Il padre di Aguirre e Fizcarraldo, il montanaro bavarese che sfila la macchina da presa all’Accademia di Monaco, la mena in spalla tra i rovi delle foreste, gira in barba ad ogni rischio sulle acque fangose dell’amazzonia sotto le frecce degli indios, l’ostilità dei governi, le fauci dei coccodrilli e le malattie cattive, pare smontare la sua folkloristica genialità in formule più circoscritte e discrete, più equilibrate e fedeli all’etichetta. Intendiamoci, Invincible è un film di tutto rispetto, girato con stile impeccabile e persino con eleganza. Alcune istanze della poetica artigianale e colorita del nostro geniale autore ci vengono riproposte con la coerenza di sempre ma dal soggetto di un fabbro ebraico che nella Berlino nazista degli anni trenta dice di essere l’uomo più forte del mondo ci saremmo attesi una figura sopra le righe, grottescamente e sublimemente tragica nell’alzare le vele della sua tracotanza per navigare mari impossibili e sfinirsi sotto la potenza di una natura che ti schiaccia senza scomporsi. Le smanie di eroismo del nostro eroe, interpretato da un campione di pesi Jouko Ahola alla sua prime esperienza come attore, finiscono certo svilite in un decesso tutt’altro che epico, ma il nostro Zesha Breitbart è un personaggio troppo positivo, troppo stilizzato nella fiacchezza di un ‘politically correct’ da catechismo. Tra la devozione bigotta, il parlare sommesso e la negazione del compromesso si estende il profilo di un’integrità rocciosa senza le smagliature sottili della contraddizione interiore e dell’autenticità innestata nel limite umano. Mi spiace dirlo ma sembra che anche Herzog nel confrontarsi con la coscienza storica dello sterminio semita abbia ceduto alla trappola della retorica antinazista, pennellandoci, pur nell’icona vigorosa di un rozzo lavoratore del ferro, l’immagine di un modello morale tramandato alla storia degli ebrei. E non inganni che il film sia tratto da un fatto reale: come ha dichiarato l’autore stesso nella sua conferenza stampa la vicenda è manipolata dall’invenzione perchè il senso del suo cinema non è quello di raccontare storie-storicamente verosimili quanto aneddoti tirati entro i termini di estetica espressiva e visionaria. Ci aspettavamo anche una maggiore presenza dell’elemento naturale da un regista che ci ha abituato a pittoreschi scenari di montagne e foreste, alla matericità tutta lirica del fango e dei porci che vagano alla dariva dei mali del mondo, né ci pare convincente la variante dei granchi e delle palme nella serra. Rimane comunque il gusto per i bozzetti di vita grossolana, la generosità paonazza e procace della gestualità popolare, la tristezza istrionica delle attrazioni da circo, di quel ‘venghino signori!’ che raccoglie tutta la pietà per una razza umana alla ricerca di una pace improbabile, ma ci aspettavamo e speriamo di più da un autore che amiamo e che riconosciamo aver dato al cinema qualcosa di veramente grande. Voto: 26/30 |
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Mirco GALIE' |
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